Il filo infinito di Paolo Rumiz è il racconto di un viaggio sentimentale, che può essere accostato ai grandi esempi settecenteschi di Sterne, Defoe, Smollett e, come le opere dei grandi della letteratura di viaggio, esso è sia diario, sia ritratto dell’autore, sia fotografia critica della società. Ma, a differenza dei grandi romanzieri inglesi, Rumiz sostituisce le leggiadre frivolezze di vita quotidiana che costellano le opere d’oltre Manica, le trivialities, con notazioni storiche e pensieri profondi, rivolti prima di tutto alla scoperta del sacro che illumina la nostra vita e che, uniti a uno stile personale e poetico, fanno di quest’opera di viaggio un modello nuovo e godibile di letteratura.
Non ritengo opportuno soffermarmi sulla trama che il filo di Rumiz tesse nel suo percorso, mi basta qui puntualizzare che il tema che l’autore pone come obiettivo della sua narrazione, cioè l’esigenza di sentirci parte dell’Europa prima di vederci entro ogni altra appartenenza, è oggi, un bisogno morale, una fede: l’unica speranza che potrà allontanare l’odio e la paura. Essere europei in questo triste momento di vibrazioni populiste significa vedere gli altri non con gli occhi offuscati del nazionalismo, ma con la visione laicamente ecumenica di coloro che un giorno sognarono di abbattere piccole frontiere per dare al mondo un esempio reale di unione e tolleranza.