Marco Carrera, il protagonista è il colibrì del titolo. Da ragazzino la madre lo chiamava “colibrì” a causa della sua corporatura e della sua altezza, molto inferiori alla media un deficit che recupererà con una cura a base di ormoni e che nel giro di pochi mesi gli farà conquistare prodigiosamente 16 cm di altezza.
Specialista in oftalmologia, il protagonista si trova, da un giorno all’altro, travolto da una serie di disgrazie: lo psicologo che segue Marina, sua moglie, entra nello studio e gli comunica che sua moglie chiede il divorzio ed è incinta di un altro. Da quel momento parte una narrazione serrata, fatta di dialoghi ma più che altro da discorsi indiretti e qualche descrizione, molte riflessioni.
Le disgrazie che si abbattono su Marco sono veramente tante, lutti, malattie, amori difficili. Marco reagisce a tutto questo come un colibrì, si tiene sempre ben fermo e consuma tutte le sue energie per mantenere quella posizione di sopravvivenza. Ma la vita del protagonista, nonostante sia colma di dolore, non precipita: il suo è un movimento frenetico per rimanere in piedi.
Possiamo vedere questo romanzo da tre punti di vista.
Conclusione.
Forse Veronesi ci vuole dire che in fondo il Colibrì siamo tutti noi che fatichiamo a vivere, avversati da difficoltà sempre dietro l’angolo, noi lasciati dalle mogli, abbandonati dai figli, noi amanti quasi sempre infelici, noi che spesso viviamo nella separazione e nella lontananza, che non dobbiamo arrenderci e usare la resistenza, o la resilienza, mai la rassegnazione, per non cedere. In fondo Marco Carrera siamo noi uomini e donne comuni che impieghiamo uno sforzo immenso per opporci alle avversità. A volte l’immagine di noi che ne scaturisce è un’immagine finta, che non ci corrisponde e allora nel profondo siamo infelici, a volte riusciamo ad essere noi stessi e siamo veri. Qui sta tutta la nostra bravura.