Gruppo scrittura Scarabeus 2019-2020

Secondo incontro


ARTURO FALASCHI

Morte per acqua
Flebos il fenicio, morto da due settimane,
dimenticò il grido dei gabbiani, l’onda lunga del mare
e il profitto e la perdita.
Una corrente sottomarina
gli spolpò le ossa in bisbigli. Mentre saliva e cadeva
passò le tappe della sua vecchiaia e gioventù
entrando nel vortice.
Gentile o giudeo
e tu che giri la ruota e guardi sopravvento,
considera Flebos, che fu alto e bello come sei tu.

Fenici.

Narrava storie Sheick Ibn Bahagdal che ascoltava il mare e udiva i bisbigli dispersi dei già morti e dei non ancora vivi; il sussurrare dell’Anima del mare nell’attimo senza tramonto del formare e del disperdere anime distinte.
Una nave era ormai a una giornata da Cartagine quando Flebos, il mercante fenicio, cadde in mare.
Il vento, propizio, soffiava da Creta verso le colonne d’Ercole e gonfiava il rettangolo della vela. I marinai avevano ritirato i remi e la nave volava.
Flebos si sporse verso l’onda, attratto dall’ombra sfuggente di una qualche sirena e una mano invisibile lo spinse verso l’acqua azzurra. Il vortice lo afferrò e a niente valse l’abilità nel nuoto e nel tuffo.
Neppure lo salvò l’abbandono al mare del sacco di monete che appesantiva il suo corpo.
Scomparse presto agli occhi dei compagni che subito ammainarono la vela e dettero mano ai remi. Una breve sosta, un giro in cerchio, poi ripresero la rotta: Cartagine aspettava, a prua.
Così volle il dio, Ba’al Adonis, che governa il popolo del mare e stabilisce le sorti, il profitto e la perdita; che decide chi vive e chi muore, chi va e chi viene.
Affondava Flebos, mentre respiro e vita l’abbandonavano e i gabbiani, l’onda lunga del mare, l’ira della tempesta e la bonaccia si perdevano in alto malgrado la mano tesa ad afferrarli ancora.
Immagini quasi di sogno avvingono chi passa la soglia di Anubi, di Ade e si perde nel blu sempre più scuro dell’abisso.
Ed ecco, mano a mano che la vita di Flebos si allontanava, sorgevano per lui città lontane, mete raggiunte e perse; in loro squarci di esistenza, la sua esistenza che fuggiva via.
Ugarit, Tiro opulenta, Amrit, Palmira la splendida, Erice sul colle e Biblo con le sue prostitute sacre.
Si sovrapponevano le une alle altre, senza confondersi mentre lui stesso, Flebos, camminava per vicoli e piazze, barattava porpora e oro, papiri e spezie orientali. Flebos che accumulava ricchezza, che perdeva tutto nel naufragio, la vita salva per l’intervento di Astarte, la Ba’alat, la Signora, apparsa tra i flutti impazziti. Flebos bambino e Flebos al tempio del dio Melqart a offrire preziosi, a Tiro.
Ma il tempo e il suo trascorrere era rimasto in alto, oltre il velo d’argento che separa l’immane liquido dall’aria che è respiro e vita.
Il tempo, narrava lo Sheick, è cosa del giorno, del sole e delle stelle. Non segue l’uomo che affonda tra le braccia di Oceano. Resta nella vita, a contare giorni e ore che separano il mortale dal richiamo imperioso del dio Ba’al.
Così, ignaro di un trascorrere, abbandonato al capriccio delle correnti, perso nel sogno della sua vita, che sogno fu, Flebos, o ciò che restava di lui, non seppe che i giorni passavano, che i compagni già ripartivano da Cartagine, la prua verso Sidone con le sue colonne d’oro e di smeraldo. Senza di lui, inutile fantasma ormai.
Senza ricordare, i marinai suoi compagni, che Flebos fu alto e biondo come loro e scomparve spinto dalla mano invincibile di Ba’al, quella stessa mano che, fra poco, avrebbe spinto anche loro.
Ora brandelli di carne si separavano da quello che fu il suo corpo, come un sommesso bisbigliare: il disperdersi di isolate parole che raccontavano di una vita, di visioni, pensieri, speranze, dolori, profitti e perdite. Viaggiavano nell’azzurro e si perdevano tra infinite altre parole sommesse: lingue sconosciute, racconti di vite di uomini, di popoli non fenici, non mercanti, adoratori di dei che non erano Ba’al, Astarte, Melqart.
Tutto si confondeva e si univa. Tutto si confonde e si unisce nel seno del mare. Da tante vite, ricordi, esperienze, pensieri: una sola vita, un solo ricordo, una sola esperienza, un solo pensiero. Un solo Essere eterno che tutto dà e tutto prende, che tutto mostra e tutto nasconde.
Di Flebos non restarono che le ossa; si adagiarono sul fondo dove trovarono, finalmente, riposo.
Poi Astarte Ba’alat, la pietosa, raccolse nel suo grande seno, nel mare interno al suo ventre di donna, piccole gocce di sussurri dispersi, coaguli, frammenti di Essere, di Essere stato.
Nuove immagini, suscitate dalla dea madre, sorsero. Piccoli corpi, bisbigli impercettibili, nei mari rosa di mille ventri di donna, prossimi a emergere a nuova luce, a sospingere ancora la grande ruota del Destino. A essere ancora, da quella grande ruota, sospinti.
Un nuovo Flebos, che non seppe mai di essere Flebos, vide una volta ancora la luce del sole e di nuovo i suoi polmoni respirarono aria.
Fu di nuovo marinaio su cento altre navi di giorni futuri ma ben presenti all’occhio attento di Ba’al. Dimenticate precedenti vite e precedenti morti, spinto nell’acqua e tratto dall’acqua secondo il volere arcano di un dio dal nome sempre diverso.
Sussurri aleggiano nel mare e sulla terra a sfiorare i vivi, distratti dalla propria piccola vita, a suscitare strani brividi; presenze impalpabili di un Flebos che muore e di un Flebos che nasce.

Questo raccontava Sheick Ibn Bahagdal che ascoltava il mare.


ANITA MATTEELLI

Sorella morte…!

La morte, è poi davvero così brutta?
Lo è forse, per coloro che al di là dell’evento
vedono solo il niente, il buio più assoluto.
Con questa visione certo spaventa di più.
La morte può anche essere dolce se si ha,
la convinzione che si tratti di un passaggio,
da una vita all’altra, in un altro stato di cui
non ne sappiamo gran che, sostenuti solo
dalla profondità della fede e dalla speranza
che non finisca tutto così nel nulla.
Immaginando luoghi ameni, con giardini
infinitamente più belli di quelli reali, più belli di quelli
delle favole, pieni di fiori inimmaginabili,
cascate di acqua fluorescenti, dai suoni armonici,
creature celestiali che suonano e cantano melodie
che innamorano l’anima, e poi pace tanta pace, quella
che non si riesce ad avere sulla terra in cui viviamo.

Con queste convinzioni non possiamo pensare
che il passaggio su questo mondo, dove ci siamo
impegnati, dove si è amato, gioito
e pianto, dove siamo stati artisti, scienziati,
persone illuminate che hanno fatto
più bello il mondo, dove ci siamo anche
ammalati, subito guerre, terremoti, alluvioni,
 e tanto altro, no, è difficile pensare che siamo
 vissuti invano dopo tutto questo.
Anche le foglie cadono in autunno, ma non muoiono
del tutto, almeno non muoiono invano, il tappeto
che vanno a costituire, sarà linfa per nuovi germogli.
Le persone che non riescono ad accettare che
tutto finisca definitivamente in polvere, in balia del
vento, non sanno immaginare cosa troveranno
quando lasceranno questo mondo, quelli così,
fanno affidamento alla parte non materiale di se
stessi credendo all’anima, inconsistente, ma sempre
percepita, grande parte della nostra vita, delle
decisioni, delle nostre emozioni, mai slegata dalla
parte materiale.
Quelli così, pensano che dopo la morte del corpo,
possa essere l’anima la protagonista della nuova
vita, e pensano che forse, conosceremo la vera
infinita felicità, avulsa dal dolore e delusioni,
quella sempre agognata e raggiunta raramente
rispetto ai tempi della vita, solo per attimi,
non è mai durevole la felicità in questo mondo.
La morte dovrebbe essere vissuta senza paura,
con la naturalezza della nascita, farebbeVisualizza pagina
molto meno paura, fino anche ad amarla come
ha fatto San Francesco che l’ha chiamata
“sorella morte!”


PAOLO BARONI

UNA LEZIONE INASPETTATA

Entrai nell’aula. Era imponente come un teatro, severa come un tribunale. C’erano una trentina di studenti sparsi un po’ dappertutto. Non conoscevo nessuno: era la mia prima lezione del primo anno, ma quando il professore fece il suo ingresso mi resi subito conto di avere sbagliato aula.
Il docente era alto, emaciato con lunghi capelli bianchi, un po’ scomposti che lo rendevano più simile a uno scienziato. Non era affatto chi mi aspettavo fosse. Nessuno degli studenti studenti seduti nell’aula sembrò sorpreso. Quindi l’errore era solo mio.
I miei compagni si alzarono in piedi e proferirono ad alta voce un ossequioso «Buongiorno Professor Maltiniti»
Li imitai. “Maltinti?. Il professore di letteratura inglese… E adesso? Non era opportuno che uscissi alla chetichella, avrei fatto la figura del fesso. Decisi di restare e sorbirmi una lezione “inaspettata”.
Il professore salutò la classe con un sorriso. Soffermò il suo sguardo per un attimo su di me e strinse leggermente gli occhi, poi cominciò a parlare.
«Allora, ragazzi, ieri avevamo brevemente introdotto il concetto di “correlativo oggettivo” nella poetica di Thomas Stern Eliot e vi avevo chiesto di cercare alcuni esempi di questa tecnica in autori italiani che conoscete. Qualcuno vuole la parola?»
Aveva una voce calda, quasi ipnotica e parlava camminando davanti alla prima fila dei banchi nei quali mi trovavo io. Fin da piccolo ho sempre scelto di sedermi in prima fila in classe. Per questo mi hanno sempre attribuito l’appellativo di “secchione”, oppure per i più simpatici ero il ”cocco della maestra”. All’università avevo continuato questa consuetudine: Si sente meglio e soprattutto si legge senza difficoltà la lavagna.
I miei pensieri furono interrotti da uno studente seduto proprio dietro a me. In seconda fila.
«Il correlativo oggettivo l’ho trovato in Montale», disse con aria da chi ha studiato e non teme confutazioni.
Correlativo oggettivo. Mai sentito nominare, pensai.
Lo studente sembrò avesse letto nel mio pensiero perché rispose alla mia muta domanda sfrontata e riassunse il concetto. «Montale ha scritto versi in cui si trovano modalità espressive che mettono in correlazione oggettivamente un’emozione con l’esperienza di tutti:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della fogli
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

«Ottimo –disse il professore accompagnando la  frase con un gesto delle mani a indicare la bontà della scelta– e mi sa anche dire perché quei versi sono un esempio appropriato?»
Quell’antipatico con finta incertezza disse: «Credo che Montale abbia voluto fissare le emozioni che provava quotidianamente attraverso un susseguirsi di immagini concrete che suscitino nel lettore le stesse emozioni.
«Certo. Quindi le immagini del cavallo stramazzato, della foglia riarsa, del rivo strozzato sono il correlativo oggettivo di che cosa…?», chiese il professore.
«Del male di vivere», rispose  sicuro lo studente.
E il professore: «Esiste una soluzione al male di vivere secondo Montale?»
«La soluzione, anche se parziale è nella divina indifferenza» fu la pronta risposta del mio occasionale compagno di classe.
«Certo indifferenza e distacco. E anch’essi vengono descritti con altri correlativi oggettivi?», continuò il professore.
Qui lo studente mostrò un po’ di incertezza e cominciò a guardarsi intorno.Poi aggiunse timidamente: «Possiamo vedere un po’ di speranza… nel falco ad esempio…»
«Via un po’ di coraggio! Certo, in quelle cose che per un breve momento ci possono far vedere che cosa si cela dietro le apparenze del mondo, il falco, la statua, il meriggio. Sono tutti correlativi oggettivi per l’indifferenza, il distacco, la bellezza della natura. Molto bene», concluse.
Bello! Eliot e Montale, e poi chissà che altro propone questo corso. Una fortuna avere sbagliato aula, pensai.
«Adesso voglio farvi una domanda che necessita una capacità di deduzione. Se avete seguito la lezione scorsa, dovreste essere in grado di rispondere: «Secondo voi Thomas Stern Eliot abbraccia l’idea della poesia come ispirazione, poesia intesa come immediata espressione del­le emozioni?».
Bella domanda, pensai io. Peccato che alla lezione precedente io non c’ero.
Nessuno alzò la mano.
Io continuai il mio ragionamento. Secondo quanto hanno affermato finora… forse… forse… Eliot… voleva  trasformare le sue emozioni private in emozioni più… universali, emozioni che trascendessero l’individualità.
«Quindi… Il momento creativo è… distinto da quello emotivo, giusto?», mi chiese il prof guardandomi negli occhi.
Maltinti aveva sentito il mio pensiero e aveva continuato il mio ragionamento. Oppure più verosimilmente avevo pensato a voce alta e tutti mi avevano udito.
Sì, risposi, rosso in volto, il momento emotivo è personale, quello creativo trasforma l’emozione personale in emozione, pubblica.
«Esatto –precisò il professore– La poesia di Eliot pone le emozioni su un piano culturale. Crea un mondo parallelo, allusivo. indiretto ma non meno fisico di quello della realtà», concluse Maltinti.
Allora il dolore, l’ansia, l’inquietudine del poeta diventa un oggetto concreto, una rappresentazione della realtà per essere recepito da ognuno di noi. È così, professore?
«Certamente… Come si chiama giovanotto?»
Gli dissi il mio nome, e lui mi aggiunse all’elenco che teneva su un foglio sulla cattedra.
«Ma adesso, interrompiamo la verifica della lezione scorsa e procediamo con il programma –annunciò con tono più professorale Maltinti– il tempo stringe e dobbiamo iniziare a trattare la quarta parte: Death by Water».
«Qualcuno desidera leggere per tutti noi?»
Lo studente alla mia sinistra alzò la mano e in perfetto inglese iniziò a recitare:


Phlebas the Phoenician, a fortnight dead,
Forgot the cry of gulls, and the deep sea swell
And the profit and loss.


LUCIANA RUSSO

Una vecchia signora.

Una signora magra, alta, vestita con un abito lungo nero si sedette stanca in un angolo della camera da letto di Don Pietro. Le labbra si muovevano e sussurravano “Vanità delle vanità: tutto è vanità”.
Padre Pietro lentamente aprì gli occhi e ripeté con un sorriso i versi iniziali del Qoelet. Si girò lentamente verso l’angolo della stanza ma non vide nessuno. Erano giorni che si ripeteva quel versetto che combaciavano un po’ con il periodo che stava vivendo. Gli sembrava che niente di quel che aveva fatto o stesse facendo avesse un senso. Si sentiva estraniato da tutto. Era anziano, le ossa la mattina gli facevano male ma ciò non gli impediva di espletare le incombenze della giornata. Scese giù in canonica e mentre prendeva il caffè dalla porta sempre aperta cominciarono ad arrivare i visitatori.  La prima fu Cady, una marocchina pronta a rovesciare sul prete tutti i suoi problemi. Lui non la fece nemmeno finire e le allungò dieci euro. Quella mattina era stanco e proprio non ce la faceva ad ascoltare la solita litania. Entrò in chiesa per la messa mattutina ormai dedicata a pochissime persone, tutte donne e tutte anziane. Quella mattina però fra quel vecchiume vide una manina che gli faceva un cenno di saluto. Guardando meglio vide il piccolo Luca col padre. Doveva essere in festa perché a quell’ora di solito era al cantiere. Il cantiere era stata una benedizione per molti uomini senza lavoro fra cui Gianni che ora stava seduto su una panca con il figlioletto.
Pochi anni prima era approdato nella sacrestia con gli occhi lucidi e affamato. Quando poteva faceva un po’ di spaccio. Insomma si arrangiava. Era tornato varie volte a trovarlo e lentamente aveva preso coscienza di sé e la fortuna poi gli aveva fatto incontrare Flavia. Il lavoro, procurato da Don Pietro aveva fatto il resto. Il prete sentì una scintilla di felicità mescolata ad orgoglio perché aveva contribuito in maniera determinante alla creazione di  quella giovane famiglia . Ma ecco una voce al suo orecchio: Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità: tutto è vanità.
3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?
4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa.
Il sorriso si spense. Finita la messa abbracciò il bambino con il padre e uscì. Doveva recarsi a trovare un vecchio ammalato. Mentre camminava, con gli occhi  bassi e la sciarpa tenuta con due mani perché il vento freddo di dicembre non la faceva stare intorno al collo, si sentì chiamare da Caterina, seduta su una panchina di fronte alla chiesa. Era una delle più vecchie del paese. Pensandoci Pietro ricordò che aveva i suoi stessi anni. Si sedette con molto piacere perché una profonda amicizia legava quei due vecchi. Don Pietro pensò che non si vedevano spesso ma quando accadeva riuscivano a parlare l’uno all’anima dell’altro ma subito sentì quella voce fastidiosa “Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo”. Era così anche con lei? Veramente non riuscivano a parlarsi? Decise di aprire il suo cuore all’amica. Le parlò dei suoi affanni, del suo dolore, del suo sentirsi privo di senso ma anche di quei versi del Qoelet che non lo lasciavano dalla mattina. Caterina annuiva e lo guardava con i suoi occhi profondi, occhi che rivelavano il profondo interesse e l’attenzione con cui lo seguiva. Quando Lui smise di parlare Caterina gli fece un po’ da specchio. Anche lei viveva i sentimenti che agitavano tanto l’anima del suo amico. Come accadeva spesso cominciarono a parlare dei tempi andati ma era soprattutto lei che ricordava. E diceva: <ti ricordi quando c’erano le baracche? Le lotte che abbiamo fatto per far sparire quella vergogna? E la scuola che fondasti proprio lì, te la ricordi?  E Maria te la ricordi? Si voleva ammazzare ma fortunatamente all’ultimo ti aggrappasti alla manica del suo cappotto e le impedisti di cadere. Quante lotte e battaglie Don Pietro mio> Così diceva Caterina ridendo e battendogli la mano sul ginocchio. Si, si se lo ricordava ma non bastava a farlo star bene. Infine per dimostrargli che anche lei conosceva l’Ecclesiaste gli citò un altro versetto del poema là dove dice: 1Nessun ricordo resta degli antichi ma neppure di coloro che saranno, si conserverà memoria presso quelli che verranno in seguito. Lui la guardò, non capiva. Quei versetti certo non l’aiutavano. Ma Caterina andò oltre. Alzandosi gli citò un verso del vangelo di Luca o Giovanni o Marco ? Mah non se lo ricordava. < Te lo ricordi il passo in cui Gesù dice: <Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.> Bene te l’hai completamente persa ed era quello che volevi. Con passo incerto la donna si alzò, si chinò per baciarlo su una guancia e se ne andò.
Diavolo di una donna pensò il prete. In due parole l’aveva rimesso in piedi. Una volta tanto era un altro a rimetterlo in riga. Si, la sua vita l’aveva persa dietro alle cause disperate, dietro ai poveri, dietro a chi non aveva veramente niente e di tutto questo come diceva il versetto nessuno si ricorderà. Sorridendo Don Pietro si alzò cosciente del fatto che se anche nessuno si sarebbe ricordato dei suoi affanni e delle sue preghiere la sua vita aveva avuto un senso. Solo così era stato vivo e sarebbe stato così fino all’ultimo dei suoi giorni. <1Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.2C’è un tempo per nascere e un tempo per morire> disse sorridendo alla signora vestita di nero che gli veniva incontro



1 1Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re a Gerusalemme. 2Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità. 3Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce. 6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento. 7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono, continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo. Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il


NADIA PAOLACCI

LA FINE

Giulio guardava attraverso il parabrezza, sferzato dalla pioggia, che a causa della rifrazione delle gocce rendeva i semafori sfumati.
Era un poliziotto, aveva alle spalle anni di servizio, ma non riusciva ancora ad accettare il turno di notte.
Sperava che quelle ore passassero presto.
Desiderava rilassarsi nel divano di casa sua, bere qualcosa, e visto che in casa, al suo rientro, avrebbe trovato tutti addormentati, si sarebbe iniettato quella “roba“.
La sua non era una dipendenza (così credeva) non ne abusava, la consumava e basta.
Era lui che aveva il controllo su di lei, era uno dei pochi che potevano assumere droga e svolgere al meglio un lavoro impegnativo come il suo.
Si ! la droga lo aiutava  ad affrontare!
Senza quegli intervalli, sapeva che non ce l’avrebbe fatta a non fare passi falsi. Era bravo ad ottenerla senza che venisse fuori la sua identità, e a cambiare spesso il pusher, forte delle sue conoscenze.
Era un poliziotto delle Volanti, costretto ad accettare anche ciò che non digeriva, con il sorriso sulle labbra, a seguire la direzione del vento, ad ubbidire.
Un giorno sarebbe stato lui a comandare, avrebbe fatto carriera, avrebbe preso lui le decisioni.
Ora doveva eseguire gli ordini.
Sperava, ma intanto c’erano ben altre cose importanti: la sua famiglia.
In fin dei conti era per loro che faceva ambedue le cose, per questa moglie e i suoi tre figli affinché potessero avere una abitazione confortevole, che i ragazzi potessero frequentare una buona scuola e , una volta l’anno andare tutti in vacanza.
Quando era nel soggiorno di casa sua, allontanava il giornale dai suoi occhi, osservava la famiglia, quale inimmaginabile regalo aveva ricevuto!
Da piccolo era pallido e mingherlino, preso di mira dai compagni, che nel giardino della scuola, lo deridevano e talvolta lo facevano oggetto di violenze, soprannominato il “chiodo albino” . Le prepotenze che subiva erano durate finché il medico di famiglia aveva redatto un certificato medico che lo esonerava dai giochi all’aperto.
Negli anni aveva sopperito alla carenza di prestanza fisica, con una grande parlantina; con questa aveva incantato anche colei che sarebbe poi diventata sua moglie, ancor più logorroico quando assumeva la polvere bianca.
Grazie a quella era energico, tenace. contrariamente a come lo definiva suo padre “privo di spina dorsale “. Ora ne era in possesso, si che ce l’aveva!
La pioggia sempre più battente, le strade lucide, lui continua il suo giro di perlustrazione.
La necessità di far passare il tempo si fa sempre più pressante, il piede preme sull’acceleratore. Una notte come questa non invita ad uscire, le strade sono deserte. Il giro imposto dall’Ordine di Servizio va rispettato, questo è il regolamento, deve proteggere i cittadini.
La sua guida è sempre più veloce, ha bisogno della “sniffata di polvere bianca”.
Sfreccia sulla strada. Un incrocio … il semaforo è spento, lui corre … alla sua destra sopraggiunge un fuoristrada, l’impatto è violento. Pochi secondi di incoscienza, si riprende, non riesca a muoversi, le gambe incastrate tra le lamiere , non sente dolore ! . Il volante sembra scomparso, l’airbag gli comprime il torace , un fastidio al collo , tocca e sulla mano qualcosa di caldo e appiccicoso , la giugulare che spruzza un getto di sangue . Sa che l’emorragia durerà poco, se non si interviene subito si muore .
Avrebbero scoperto il suo segreto! Niente sirene, quanto prima dal comando avrebbero intercettato l’incidente.

Davanti ai suoi occhi compare il volto di suo padre, con il suo sguardo di disapprovazione.
Vede sua moglie, i suoi adorati figli. Che cosa avrebbe detto loro?
La vista si annebbia una preghiera: «Dio fammi morire! Non posso affrontare».


SIMONETTA MANASIA

Stupendo credere

    Alberto era stanco di discutere con sua cognata Anna, moglie di suo fratello, sulle questioni religiose.
     Tutte le volte che lui andava a cena da loro, erano lunghe e animate dissertazioni su quello che sarebbe successo dopo la morte.
     Una nuova vita o il nulla?
     Anna crede fortemente che ci sia la possibilità di raggiungere i nostri cari ormai estinti nell’aldilà e di rivivere insieme a loro una nuova vita.
     Alberto controbatte dicendo che nessuno e ritornato sulla terra a testimoniare le sue convinzioni e quindi è libero di pensarla in un altro modo.
     La madre l’aveva battezzato quando era ancora in fasce e convinto a seguire tutto l’iter cattolico. La prima comunione, la cresima e il matrimonio in chiesa.
     Da neonato reagì al battesimo con un forte pianto durato diverse ore (forse comportamento premonitore) di quello che sarebbe stato uk suo futuro.
     La decisione di battezzarlo era stata dei suoi genitori non certo di lui che essendo troppo piccolo non poteva capire.
    La prima comunione avvenne verso i dodici anni e essendo cresciuto, non aveva perso l’occasione di parlare spesso con la catechista, dimostrando le sue reazioni negative.
      La confessione non la sopportava, non voleva sentirsi in colpa per ogni cosa che combinava, per lui erano solo azioni errate ma che l’avrebbero fatto crescere. Il bacio era peccato, non si poteva toccare con i denti l’ostia perché il corpo di Cristo, digiuni dalla mezzanotte del giorno prima della comunione, Perché?  Boh? Un bambino affrontava il mondo con ansia e molto timoroso senza nessuna ragione.
     Bastavano quattro Ave Marie e cinque Pater nostri e il parroco ti assolveva.
     Nel tempo seguiva la Cresima, diventavi a quel che si ricordava Alberto, soldati di Cristo (perché eravamo in guerra?), rinnovava le promesse battesimali, fatte in tenerissima età. Il vescovo ufficializzava questo sacramento a porte chiuse.


     Ai tempi di Alberto ormai ultracinquantenne si faceva sia la comunione, che la Cresima in un anno circa. Oggi invece sono necessari diversi anni di catechismo per stare molto più tempo con la loro comunità religiosa?
     La cresima è necessaria per sposare in chiesa e così Alberto pur avendo contestato tutto il percorso religioso dettato dalla madre aveva deciso di unirsi in matrimonio nel Duomo di Livorno convinto da un’altra donna che a quell’epoca era la fidanzata.
     Un matrimonio seguito da un burrascoso divorzio.
     Ripensandoci riecheggiavano ancora nella sua mente le frasi del prete:
      «L’uomo non separi ciò che Dio unisce»
      Ma Dio chiamato solo a testimoniare l’unione di due persone perché non perdona l’uomo e la donna che nel tempo hanno capito che non possono più portare avanti la loro vita coniugale?
       Addirittura tempo fa l’uomo o la donna, a volte senza colpa, non potevano più avvicinarsi all’altare per prendere l’eucarestia.
     Alberto con la sua esperienza di vita è diventato ateo e non crede assolutamente nell’aldilà quindi tutte le cene a casa di suo fratello finiscono in una diatriba, senza soluzione.

 


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