Gruppo scrittura Scarabeus 2019-2020

Primo incontro

ANITA MATTEELLI

Giulio e Maria Sole detta Marìsò.

Questa è una breve e per me grande storia che conosco da molto vicino e che mi emoziona e commuove ogni volta che ci penso.
Sono cresciuti insieme Giulio e Maria Sole, nati nello stesso mese e anno, quindi coetanei e stesso segno zodiacale…gemelli.
Hanno entrambi forti caratteristiche attribuite al segno dei gemelli, fantasiosi, senso artistico, molto comunicativi, carattere peposo con umore volubile specialmente lui molto sensibile ed intelligente, amabili comunque, sempre aperti a nuove amicizie e a nuove imprese.
Giulio ama la musica, il suo rifugio e motivo di vita, lei creativa, ama la pittura e da sempre si cimenta dipingendo sopratutto tramonti, fiori, alberi quando l’autunno li dipinge a sua volta di caldi colori, partecipa a corsi di teatro, ama recitare e cantare, fa parte del coro parrocchiale è una ragazza molto versatile.
Sono grandi amici e l’uno sa tutto dell’altro, sono sempre stati insieme dall’asilo al liceo, due menti molto vivaci si sono sempre aiutati nello studio, lui molto incline alla letteratura, storia, lei alla matematica e materie scientifiche, una coppia che sembrerebbe nata per stare insieme, per completarsi, ma…la vita come al solito ci mette del suo perché…
Perché Giulio è nato con una rarissima malattia, ad oggi sono conosciuti solo due casi nel mondo. Una malattia che riguarda la totale mancanza di muscoli, quando a poco più di un anno gliel’hanno diagnosticata avevano aggiunto che il bambino non sarebbe arrivato a compiere gli otto anni.
Da quel momento è iniziato per lui un vero calvario di visite, accertamenti, consulti anche con specialisti da ogni parte del mondo, ma di rimedi terapeutici di volta in volta prescritti fino ad oggi nessun risultato che abbia dato anche un minimo miglioramento, anzi causa di vari e ulteriori disturbi.
Oggi, che ha poco più di diciotto anni, si è stufato, non vuole più essere sottoposto a visite, a consulti, a terapie inconsistenti, non vuole più essere cavia…vuole solo perseguire un suo grande sogno, per il quale lotta come un leone con le sue poche forze. Si guarda allo specchio e vede ogni giorno la stessa figura, niente è cambiato con tutte quelle terapie fasulle, sente rabbia dentro di se, dolore, paura nel guardare quell’immagine di se, molto alta, magrissima a causa della mancanza di muscolatura, viso scavato con bellissimi occhi scuri e profondi, labbra ben disegnate e carnose, collo lungo e secco, stessa cosa per braccia e gambe e tutto il corpo, ovviamente soffre e non si piace e pensa come può piacere specialmente alle belle e frizzanti ragazzine che lo circondano, in particolare Maria Sole che da qualche tempo guarda con altri occhi e altro cuore.
In questa situazione, il pericolo maggiore è dato dal suo cuore, muscolo fragile, per il quale anche una qualsiasi infezione può essere insidiosa fino a fargli perdere la vita. consce benissimo la sua situazione e sopratutto la sua fragilità, ma cerca di non abbattersi del tutto e prosegue con la sua forte volontà nel suo sogno, scrivere e cantare brani rap, pieni di se e di tutti i sentimenti che ha dentro.
Con l’aiuto di amici molto attenti e affezionati, è riuscito a pubblicare già quattro brani, parole sue e musica di un carissimo amico musicista che lo ha da tempo seguito insegnandogli musica, e che lo ha introdotto anche da chi gli ha pubblicato i quattro brani dentro a video curati dal gruppo di amici che lo sostengono in questo suo sogno, video tutti da lui stesso prodotti pagandoseli con i soldi relativi alla pensione di invalidità percepita che ha accumulato da sempre proprio per questo obiettivo.
Maria Sole anche in questa sua impresa l’ha sostenuto incoraggiato, consigliato, insomma sempre vicina con il suo affetto. Eggià, affetto, non AMORE,
Per lui invece non è più solo affetto amicale, ma un qualcosa che va oltre, che lo scombussola parecchio, un qualcosa che gli toglie il sonno, che quando lei gli è vicino gli procura tali emozioni e pulsioni da far ballare il suo fragile cuore.
Alla sua età è più che normale avere pulsioni, pulsioni alle quali non può provvedere personalmente, come qualsiasi ragazzo della sua età fa, perché la sua malattia tra gli altri problemi, non permette alle sue mani neppure di stringere le posate, solo con un’enorme fatica riesce a portarsele alla bocca, quindi ha anche questo problema non indifferente…
Maria Sole da un po’ se n’era accorta facendo finta di niente, ma un giorno mentre stavano vicini vicini seduti sul divano ascoltando e guardando con le cuffie l’ultimo video pubblicato, lui si fa coraggio e le appoggia la sua debole mano sulle sue che teneva intrecciate in grembo, lei ha un brivido, un sussulto e istintivamente si sposta leggermente mentre lui invece le si avvicina ancora di più per baciarla, la bacia e lei si prende il bacio per non mortificarlo, ma al secondo tentativo di lui, lei le mette la mano sulla bocca e, togliendosi le cuffie gli dice che vuole parlargli.
Prende tempo deve riflettere velocemente su cosa dirgli senza mortificarlo ulteriormente, prova un’onda di forte tenerezza, sa benissimo quali siano i suoi desideri, sa che si è innamorato di lei, sa i bisogni “ormonali” di ragazzo della sua età che non può soddisfare in altro modo, deve pertanto parlargli dosando e scegliendo parole che non creino malintesi, cercando insieme una soluzione possibile, in cuor suo sa già cosa proporgli, le è venuta un’idea già da quando si è accorta del cambiamento dei sentimenti di lui, ha tanto pensato e con il bene che gli vuole, si è convinta che deve aiutarlo anche in questa sua difficoltà.
L’amore anche quello amicale, quello vero, quello viscerale, compassionevole, empatico a volte sa compiere meraviglie e arriva all’impossibile.
Lei da poco è innamorata ricambiata, di un ragazzo che segue lo stesso corso di recitazione, non ha avuto ancora tempo per parlarne a Giulio, quel giorno dopo aver ascoltato il nuovo cd, aveva giusto intenzione di parlargliene, ma le cose spesso vanno in modo diverso da come si programmano.
Ora che ha un ragazzo con il quale ha parlato della situazione di Giulio, in special modo quella relativa al sesso, ha capito quanto sono forti le pulsioni nei ragazzi della loro età, ha compreso ancor più il disagio di Giulio.
Quindi inizia a parlargli prima di tutto del delicato argomento, di questi suoi naturali bisogni, facendogli capire che è disposta ad aiutarlo a soddisfarli, ma senza implicazioni sentimentali amorose, di quell’amore che non può dargli come innamorata ma come affetto da amica sincera, un’attenzione come quando lo aiuta a tagliargli la carne quando sono al ristorante o la pizza in pizzeria.
Lui l’ascolta tenendo la testa bassa, non osa guardarla negli occhi, è imbarazzato e sopratutto ha perso la speranza che anche lei fosse innamorata di lui, quando lei alla fine del discorso gli appoggia amorevolmente la mano sotto il mento per fargli alzare la testa e guardarlo negli occhi, si accorge che sta anche piangendo, cosi in un impeto di generosità lo attira a se e lo abbraccia forte forte per fargli capire che con lei non deve avere alcun imbarazzo e che l’affetto che ha per lui non verrà mai meno.
Quando si è calmato Maria Sole scioglie l’abbraccio e, prendendogli le mani inizia a raccontargli che è innamorata di Marco che lui conosce bene, ma nel suo cuore ci sarà sempre anche lui e sarà pronta a stargli vicino con l’amore di una sorella per il fratello che non ha avuto.
Lo consola con la delicatezza che la distingue poi gli dice che è pronta a regalargli l’aiuto promesso. Giulio al momento non l’accetta, le dice che vuole rifletterci ma, subito aggiunge…il tuo cuore è grande Marìsò ti ringrazio, ma non riuscirò mai chiederti di questi regali, ti amo troppo, e ritengo che non sia affatto giusto un sacrificio di questo tipo, sei speciale ed io ti amo, credo sia meglio per me e anche per te stare un po’ lontani, ma nel mio cuore ci sarai comunque, appena avrò accettato che non potrai amarmi di quell’amore con cui ami Marco, mi rivedrai davanti alla tua porta.
Questa è una storia vera che dimostra, tra l’altro, senza destare scandalo, quanto la compassione e l’amore possono, di questi tempi, dove sembra essere persa quell’umanità generosa attribuita di solito a tempi passati, ed è bello scoprire, che ancora esiste, ma non fa notizia…! 


PAOLO BARONI

UN’ INTERVISTA IMMAGINARIA

Ho appeso al chiodo le mie vesti di insegnante ormai da un po’ di tempo (ammesso che le abbia mai indossate) e giorni fa ho ricevuto una domanda a bruciapelo: “Qual è il segreto per essere un buon insegnante?”
Dopo un attimo di esitazione, riesumando il mio migliore humor inglese, ho risposto: “Fare in modo da diventare trasparente”. Poi, ho atteso la reazione del mio interlocutore.
“Trasparente? Si spieghi meglio.
Vede, –ho continuatotutti coloro che lavorano in un processo di apprendimento devono essere spinti da obiettivi ben definiti, illuminati da aspettative concrete e devono operare in un ambiente ricco di stimoli, di strumenti, eccetera. Ma è lo studente il vero protagonista della costruzione delle proprie strategie di apprendimento. Il docente, come il Cheshire Cat di Alice[1] dovrebbe farsi sempre più trasparente, fino a svanire e lasciare il suo sorriso a illuminare tutto il processo educativo. Dopo aver instaurato un clima relazionale e operativo, cioè, l’insegnante dovrebbe assumere un ruolo di coordinamento e di guida e mai quello di narratore o peggio di depositario del sapere. Il suo “sorriso luminoso” deve essere volto alla costruzione e non alla riproduzione della conoscenza.
Il mio intervistatore, guardandomi fisso negli occhi, mi ha chiesto:
“Ma concretamente, che cosa deve fare un insegnante per fare della scuola un luogo adatto alle esigenze dei nostri giovani?”
“Concretamente”, ho risposto, “occorre mettere gli studenti in relazione fra loro, perché essi imparino collaborando, condividendo le loro esperienze di apprendimento. Solo attraverso l’interazione ci può essere un vero processo di soggettivazione”.
Gli occhi dell’intervistatore si sono fatti sottili, sintomo di una comprensione sfuggente. E probabilmente, non soddisfatto ha replicato con un semplice ma perentorio: “Cioè?”
“Cioè, non dobbiamo raccontare loro come stanno le cose ma farglielo scoprire facendoli lavorare insieme, ognuno col proprio ritmo. Dovremmo mettere in gioco ogni possibile strumento che favorisca la comunicazione, lo scambio di opinioni, che metta in gioco le strutture reticolari e complesse dei processi cognitivi e che incrementi anche il loro coinvolgimento emotivo”.
L’intervistatore deve aver avuto un pensiero malizioso: Tu mi sciorini grossi concetti, ma io ti riporto a terra e, certo di mettermi con le spalle al muro, ha aggiunto: “Mi faccia un esempio pratico”.
“Un esempio per tutti? La didattica collaborativa. Non come progetto da bollino blu, ma come prassi educativa normale. Ogni azione educativa in classe, può essere amplificata attraverso la collaborazione. Conosce l’azione etwinning che si svolge nell’ambito dei progetti europei”, ho chiesto quasi sicuro di una risposta negativa.
Etwinning? Certo… mi sembra…, sì insomma… me lo riassuma in poche parole.”
“Fare etwinning significa realizzare collaborazioni a distanza e partenariati pedagogici tra scuole di paesi diversi servendoci dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nel rispetto dell’autonomia di ognuno. Educazione a distanza ed educazione permanente al tempo stesso per costruire una comunità di studenti e formatori che operino in una dimensione sociale”.
Gli occhi del mio il mio interlocutore si sono fatti più espressivi: L’ ICT[2] , –ha sillabato in perfetto inglese– sono strumenti che hanno ridefinito quasi ogni aspetto del mondo del lavoro e della comunicazione e capisco pure che le attività svolte in dimensione collaborativa sono molto più vicine al mondo reale… ma… nella scuola…, non sarebbe quasi impossibile da realizzare? Dove abbiamo… insegnanti, spazi, laboratori, finanziamenti?”
Ed io: “Lei dice giustamente che la dimensione collaborativa è molto più vicina al mondo reale e io aggiungo che e gli studenti sono più motivati, rafforzano le competenze linguistiche, usano strumenti avanzati, imparano l’Europa attraverso il confronto e il rispetto dell’altro. Inoltre, gli insegnanti innovano i loro metodi di insegnamento e mettono in pratica la didattica multidisciplinare. Tutto il processo di apprendimento cambia da competitivo a collaborativo, e ciò che favorisce l’autonomia. Non pensa che tutto questo valga la pena di essere finanziato e posto in un progetto di riqualificazione della scuola? In tutti i paesi dell’U.E. lo stanno facendo da anni”.
“Certo, certo –ha convenuto l’intervistatore–, sarebbe il modo anche di realizzare l’intercultura, quella vera”.
“Certamente, i principi di intercultura, di multiculturalità nell’etwinning sono valori concreti, vissuti in prima persona. Gli obiettivi in primo piano sono: la comunicazione, la creatività, l’elaborazione, la riflessione, l’iniziativa personale”. Tutto ciò che l’Europa chiede ai sistemi educativi nazionali”.
“Ho capito, ma il nodo resta quello della valutazione –ha aggiunto il mio intervistatore– a chi, nella didattica collaborativa, spetta il compito di valutare i processi di apprendimento? E in che modo si possono controllare gli obiettivi che mi sembrano, come dire, poco scolastici?”
Il mio interlocutore si stava rivelando meno sprovveduto di come mi era sembrato. Aveva bisogno di una risposta significativa: “La scuola ha certamente bisogno di un atteggiamento di disponibilità e di apertura verso la valutazione dei processi e dei risultati. La soluzione è nella documentazione. Se il processo educativo dell’alunno sarà illustrato da una precisa e visibile documentazione delle esperienze e delle competenze conseguite, la valutazione finale si risolverà in una certificazione semplice e automatica. In questo tipo di scuola la documentazione è il nucleo irrinunciabile di ogni livello, di ogni momento, da quello progettuale a quello finale. Si valuta il processo e con esso si valutano insegnanti e gli alunni e poi si procede poi alla disseminazione per diffondere idee e metodi.
“Bellissimo”, ha quasi gridato il mio interlocutore, ma subito dopo con voce meno entusiasta ha aggiunto: “La scuola è pronta a tutto questo?”
Eccola là implacabile, la domanda da un milione di dollari. La scuola è pronta?
“Non so se la scuola è pronta –ho risposto dopo una lieve esitazione– perché con il termine scuola si intende tutto. Che significa “scuola”? Il Ministero? I dirigenti? Gli insegnanti? Gli alunni? I genitori? Come si fa a dire la Scuola è o non è pronta a operare in modo coerente, per rispondere ai dettami del costruttivismo e fare della comunicazione e della collaborazione il centro della didattica in classe; a rendere ogni istituto non più cittadella del sapere ma un centro servizi aggiornato e aperto? Non so se la scuola è pronta, ma lo sono migliaia di insegnanti. E milioni di studenti sono in sintonia con questo tipo di fare scuola. Moltissimi educatori stanno sperimentando da decenni questo tipo di didattica. Fin dai tempi in cui la sperimentazione fu introdotta nella scuola italiana con i Decreti Delegati nel 1973, quando io mi affacciai per la prima volta nella scuola pubblica, il tarlo della ricerca didattica non ha più abbandonato la mente dei formatori. E da anni abbiamo la preziosa possibilità offerta dall’autonomia scolastica che è uno strumento irrinunciabile di innovazione e modernizzazione della scuola. La cultura dell’autonomia aumenta il grado di responsabilità di tutti gli attori del processo educativo.
“Quindi molti insegnanti sono pronti secondo lei?”
“Molti insegnanti e dirigenti non solo sono pronti ma sono in azione e sono disponibili a rappresentare un esempio per colleghi che ancora vivono la scuola secondo principi superati. Ci sono educatori pronti ed educatori da aggiornare. Ma dappertutto nel mondo è così, credo.”
A questo punto il mio intervistatore, con un sorriso ironico ha tirato fuori la sua battuta finale: “E… lei… l’insegnante, visti i compiti che ha di fronte, vorrebbe che diventasse trasparente, addirittura invisibile?”
“Certo! Trasparente, come trasparente è l’aria che respiriamo.”


[1] Nell’edizione italiana del libro di Lewis Carroll questo gatto viene chiamato Stregatto

[2] Information Communication Technology


ARTURO FALASCHI

Per il camino.

Pochi prigionieri notarono il fatto, di per sé insignificante. Henek, il boemo, fu uno di loro.
Forse per un colpo di vento, forse per una misteriosa volontà, forse per puro caso, dalla colonna di fumo grigio azzurro che si levava per tutto il giorno dal camino del campo si staccò una nuvoletta rotonda.
In genere il fumo saliva in verticale in assenza di vento e finiva per confondersi con il piombo delle nuvole basse che oscuravano quasi sempre la luce del sole. Quel camino e quel fumo erano l’unica via d’uscita dal campo: un’uscita in verticale, un’uscita gassosa. I corpi erano resi liberi e leggeri dalla fiamma sempre accesa e, salendo per il camino, si confondevano l’uno con l’altro fino a formare un unico corpo, il corpo di un’umanità infelice, torturata che, allontanandosi dal campo, festeggiava la fine della sua tortura. E la fine dell’individualità, della matricola e del proprio particolare nome, svaniti in fumo.
Anche le anime uscivano dal camino? Da dove mai avrebbero potuto uscire altrimenti. Uscivano purificate dal fuoco che distruggeva e salvava e, come i corpi resi aerei, si confondevano le une con le altre a formare una cosa sola, un vento verticale che attraversava il grigio della bruma verso la luce del sole, verso la patria da cui si erano partite per l’avventura tragica di essere Tizio o Caio.
Ma la nuvoletta si formò lateralmente, rimase per un po’ indecisa, poi invertì il moto e, invece di salire, tornò ad abbassarsi verso i reticolati del campo. Poi scomparve alla vista e non si seppe se atterrò e se lo fece all’interno o all’esterno del reticolato, quello percorso dall’alta tensione. Non si seppe nemmeno se quella nuvoletta contenesse o meno un’anima.
Henek giurava che fosse rimasta all’interno del campo ma non aveva motivo di esserne certo.
Fu quel giorno stesso che, non si sa bene come, nel campo, proprio nella baracca 17 di  Henek, arrivò quel mostriciattolo che fu battezzato Hurbinek.
Piccolo, gracile, quasi privo di gambe, si spostava strisciando spingendosi con le braccia e non parlava. Ne sembrava incapace o forse non parlava perché c’era poco da dire in quell’inferno.
Non sarebbe sopravvissuto nemmeno un giorno senza le cure che, da subito, gli prestò Henek, anche se, visto il numero di matricola che aveva inciso sulla carne dell’avambraccio destro, doveva essere del tempo che si trovava nel campo.
Quel numero su quel braccio costituì un grave problema per il personale tedesco del campo stesso.
Perché quel numero lì era già stato assegnato a un altro prigioniero e, voi capite, un errore del genere non era tollerabile per l’assoluta precisione e per il senso di responsabilità degli addetti.
Ma c’era di peggio: nell’accurata ricerca del sottufficiale addetto alle registrazioni, risultò che il prigioniero in questione facesse già parte della sezione “eliminati”.
Un errore imperdonabile. Ne andava della professionalità e dell’onestà di tutti.
Che fare? Ci furono riunioni ristrette e segrete in merito ma una decisione unanime non fu mai presa.
Modificare i dati del registro? Mai: il registro non aveva mai avuto la minima cancellazione. Era intonso e tale doveva restare. A una ispezione come quella del mese scorso sarebbe stata subito evidenziata e allora addio encomio.
Fare fuori il doppione eliminando con lui anche il problema? Impossibile: il regolamento imponeva che ogni eliminazione fosse accuratamente registrata e non si poteva certo registrare due volte l’eliminazione dello stesso numero di matricola.
Fare finta di nulla e lasciare tutto così tanto quello, tra poco, sarebbe morto da sé? La proposta fu guardata con disprezzo: mica siamo italiani, noi! Noi i problemi li affrontiamo e li risolviamo.
Ma quello era  un problema senza soluzione che aveva tolto il sonno al coscienzioso sottufficiale e messo in ansia tutti i responsabili terrorizzati dall’eventualità di una prossima ispezione a sorpresa.
Il problema si risolse da sé. Meglio: fu Hurbinek stesso a risolverlo.
Hebnek lo vide uscire dalla baracca 17, strisciando, lentamente, nel cuore della notte. La sentinella gli avrebbe sparato immediatamente ma, strano, non lo fece. Forse perché non si poteva ammazzare uno che, stando ai registri del campo, risultava già morto.
Lo seguì con lo sguardo, nella poca luce gialla e spettrale. Si avvicinò alla recinzione di filo spinato e di alta tenzione, lentissimo la attraversò. Anzi, fu piuttosto la recinzione ad attraversare il suo corpo senza che niente accadesse, come se quel corpo fosse solo fumo. Poi lo perse di vista nel buio della campagna gelata.
Henek era allo stremo quando i russi invasero il campo e i tedeschi se la dettero a gambe. Non riusciva nemmeno ad alzarsi, così fu un soldato russo, forse un sergente, che lo aiutò a sollevarsi seduto, la schiena appoggiata al legno della baracca 17. Gli fece bere qualcosa, poi gli introdusse in bocca quella che doveva essere una zolletta di zucchero. Troppo dolce dopo il tanto amaro.
Nell’allungare la mano verso di lui, la manica della giacca si sollevò ed Henek vide chiaramente il numero stampato sulla carne chiara dell’avambraccio destro, indelebile. Ebbe la forza di sussurrare il nome di Hurbinek, ma l’altro mostrò di non capire. Disse qualcosa di incomprensibile, aspirò una gran boccata dalla sigaretta che stringeva tra i denti e soffiò verso di lui una nuvoletta sferica grigio azzurra che subito si sciolse.
Una risata, un sorso generoso di vodka dalla fiaschetta appesa al collo, poi si allontanò, a passo di danza e si confuse con i soldati in festa.
Quando gli infermieri lo adagiarono sulla barella, Henek si addormentò.
Sognò che anche gli infermieri e anche i dottori mostravano un numero di matricola indelebile sulla carne dell’avambraccio e tutti i soldati russi l’avevano. Sognò l’enorme schedario dove ognuno di loro era registrato e il campo immenso recintato con filo spinato e corrente elettrica; sognò il forno che li aspettava e il fumo che li avrebbe, confusi l’uno nell’altro, trasportati oltre le nuvole. C’erano anche i tedeschi in quel campo, i tedeschi prigionieri, con il loro numero di serie, in attesa di diventare fumo, lo stesso fumo dei russi e di tutti i soldati del mondo, tutti confusi, attraverso il camino. Sognò di passare attraverso il filo spinato e l’alta tenzione per perdersi nel buio della campagna, in attesa del sorgere del sole.


NADIA PAOLACCI

Incontro

Pasquale era nativo di Squillace, un piccolo paese della Calabria, dove la famiglia possedeva un appezzamento di terreno e un piccolo gregge di pecore. Erano nove tra fratelli e sorelle, lui era il terzo, il primo figlio maschio. Allegro e esuberante, fin da piccolo, con una grande passione per il canto, sostenuta da una bellissima voce.
Era la sua voce che echeggiava nelle campagne quando zappava la terra o quando conduceva le pecore al pascolo.
Le sue melodie avvertite nel piccolo bar del paese, distraevano gli avventori che giocavano a carte davanti ad un bicchiere di vino.
Venne naturale, che la famiglia pur con scarse risorse , lo mandasse a studiare  a Catanzaro da un rinomato Maestro di canto, racimolando soldi anche con l’aiuto dei compaesani.
Pasquale rappresentava l’orgoglio del paese. Era un bel ragazzo, alto, fisico prestante, un ciuffo ricciuto di capelli neri, che invano la sua mano cercava di spostare dalla fronte, ma, immancabilmente, ricadeva quasi a coprire quegli occhi scuri così pieni di espressione,
La vita  a Catanzaro era costosa, e i soldi erano sempre pochi, ma la gioia di frequentare quel Tenore e riuscire a perfezionare la sua voce, soffocava ogni sua rinuncia.
Il suo timbro di voce si stava sempre più affinando, e si riempiva di espressività canora, ma a lui mancava la diplomazia che era necessaria in quel campo difficile da espugnare.  Il suo carattere non glielo permetteva, non scendeva a compromessi, orgoglioso e talvolta collerico, non accettava  la   finzione o le false adulazioni, ma la desiderata audizione  per cantare in un Opera, tardava ad arrivare.
Le ristrettezze si manifestavano ogni giorno di più, i soldi che glia arrivavano dal paese erano sempre insufficienti.
Di giorno faceva il cameriere in un bar, la sera cantava in un ristorante, con l’accompagnamento dei clienti alticci che niente capivano della sua splendida voce.
Con il tempo iniziò a bere, sperando che il vino gli desse l’avvio per mettersi sempre di più in sintonia con coloro che lo applaudivano scompostamente nel locale.
Lui, sangue calabrese, non si dava per vinto.
Fortunatamente, arrivò l’agognata audizione, andò bene, ricevette un contratto. Le esibizioni iniziarono in piccoli teatri di provincia, dove la sua voce veniva apprezzata da un pubblico competente.
Prima di salire sul palcoscenico, per darsi sicurezza, ricorreva al vino, stando attento a non esagerare. Quando, dopo un successo, con l’adrenalina sempre in circolo , si affidava a qualche bicchiere di super alcoolico per addormentarsi.
Il suo carattere non ne riceveva giovamento,  e una sera , salito sul palcoscenico con le gambe un po’ malferme , cadde e la sua voce impastata completò la scena. Il pubblico lo schermì , ridendo e qualcuno gli dette “dell’ubriaco” . La sua reazione fu violenta e sproporzionata, lanciò una sedia della scenografia verso la platea.
Da quella sera , iniziò il suo declino, gli ingaggi diradarono e la sua fama di collerico beone, detta il colpo di grazia alla sua carriera di cantante.
Nei momenti belli aveva spedito alla famiglia foto che lo ritraevano elegante durante i concerti o nella hall di alberghi lussuosi, che venivano appese immancabilmente alle pareti del piccolo bar del paese.
Tutto improvvisamente finì, svanirono gli alberghi, i palcoscenici, gli amici che gli si accodavano per scroccare cene e allegre bevute  ed anche i soldi gestiti con scarsa parsimonia. Via via vendette abiti di scena, e perfino l’orologio che sua padre gli aveva messo al braccio alla partenza dal paesello.
Come sarebbe potuto rientrare a Squillace, così sconfitto, con quali spiegazioni ?.
Solo, trascinava le sue giornate farneticando dei suoi passati successi nella bettola situata vicino alla stamberga che era diventata la sua casa.
Vi si accedeva da un cortile pieno di rifiuti. La porta d’ingresso era tenuta ferma da un chiavistello arrugginito… chi mai avrebbe potuto rubare in quella catapecchia, non c’era niente ! All’interno bottiglie vuote , vecchi giornali, una cucina economica piena di ruggine e poi un letto continuamente disfatto dove si coricava tra biancheria sporca. La via di periferia aveva quell’odore misto di urine e cavolo marcio. Quello era il suo quotidiano.
Una sera, nel tornare verso la casa, un’ombra dietro di se … un cane macilento lo seguiva a discreta distanza. Quando Pasquale entrò, il cane restò accovacciato vicino alla porta, non osò entrare ! .
Al mattino era allo stesso posto , e con un pensiero di pietà gli allungò un pezzo di pane che il cane mangiò solo dopo che lui si era allontanato.
Il giorno seguente si fece accarezzare ! Il mantello chiazzato, aveva un colore indefinibile, qualche ferita rimarginata, un orecchio in su ed uno in giù, uno sguardo malinconico, nell’insieme era proprio brutto , Quando usciva il cane lo seguiva a distanza, si accovacciava alla porta della bettola, aspettando il ritorno verso la catapecchia, senza entrarci.
Dopo diversi giorni, quando Pasquale era meno ubriaco del solito, il cane si fece coraggio, il suo muso appuntito, con un  suo orecchio in giù e uno in su, entrò dentro.
Aveva adottato Pasquale la solitudine li aveva accomunati.


LUCIANA RUSSO

La scrittura.

Tempo fa è arrivata la sollecitazione di Marco che io ho perso. Ora come faccio ho pensato e mentre pensavo vedevo i visi degli amici del gruppo di scrittura. Ho immaginato una loro reazione e non è stato difficile perché ormai ci riuniamo da tanto tempo e ci conosciamo abbastanza bene. I nostri scritti, anche se  i primi tempi  cercavamo di non far trapelare nulla di noi, sono rivelatori ci presentano così come siamo. Paolo è il poeta. Anche quando scrive in prosa la sua vena poetica riemerge insieme ad una malinconia dolce che lo accompagna sempre. Quando deve difendere un suo punto di vista, però, viene fuori tutta la sua passionalità e sembra adirato.  Noi ci guardiamo e ci diciamo ecco hai visto l’hai fatto arrabbiare. Ma non è arrabbiato. E’ diventato nonno in questi anni e ora capisce gli affanni degli altri che lo hanno preceduto in questa funzione. Ogni tanto sparisce perché va a trovare l’altra parte della sua famiglia in Inghilterra. Nei suoi scritti talvolta emerge questa mancanza assidua del nipotino. E che dire di Simonetta! Quando iniziamo lei esordisce dicendo sempre che quello che ha scritto è una schifezza perché lei non è all’altezza di Paolo, Arturo, etc.. Non si reputa mai all’altezza tende a sottovalutarsi ed è questo che a volte la fa scattare per dire guardate che io ci sono. Affronta la vita con passione, per lei non ci sono mezze misure. E invece l’effervescente Simonetta nei suoi scritti va sempre a fondo delle cose, attenta ai problemi di chi le sta intorno ed è capace di parlare e  scrivere su argomenti delicati sempre con molta delicatezza e competenza. Siede di fronte a me e a volte io mi sforzo di non guardarla perché il più delle volte ci mettiamo a ridere come quando eravamo ragazzine. Arturo siede di lato a Marco. Quando scoppia qualche risata o ci dilunghiamo in battute lui sta zitto ma freme . Per lui quei momenti sono rubati alla scrittura  mentre lui potrebbe leggere il suo racconto. E’ un vero scrittore in questo perchè non vede l’ora di far conoscere la sua nuova creatura. Non si accontenta mai, vuole  andare oltre quello che la realtà presenta come normale o acquisito. I suoi scritti presentano sempre una doppia faccia e si nota quest’ansia di sapere che in lui non muore mai.  E’ molto attento a quello che scrivono gli altri e talvolta si fa rileggere dei pezzi  per capirli meglio. Nadia, siede accanto a me, e all’inizio ero sconcertata perché lei è una donna gentile, solare ma scriveva dei racconti gialli molto sanguinolenti. Io la guardavo e non riuscivo a capire come i due aspetti si potessero conciliare. Poi ha lasciato il genere poliziesco  per parlare un po’ più di lei stessa nei racconti. Era stupita quando riusciva a tirar fuori la Nadia più nascosta. Gli effetti della scrittura sono anche questi. Quando meno te l’aspetti le parole escono da sole e vanno a pescare qualcosa che era seppellito da anni dentro di te. Questo è successo a Nadia ma anche a tutti noi. Per ultimo ho Lasciato Anita il nostro anfitrione.  E’ l’altra poetessa del gruppo. Quando descrive la natura usa tutti i colori. La perdita del marito si riflette in tutto quello che scrive  ma anche i cambiamenti delle stagioni quando descrive la sua amata Cardoso. Scherzando a volte le diciamo che la sua casa ormai è anche la nostra. Lei ride e molto spesso va a prendere qualcosa che ha preparato per noi. Mi ha sorpreso questa vena poetica  perché all’inizio quando abbiamo cominciato scriveva solo racconti . Ah dimenticavo di dire la reazione che si avrà quando dirò che ho perso la sollecitazione di Marco. Paolo in maniera stizzita mi dirà che dovevo cercare meglio, Nadia e Anita mi diranno che capita. Anche loro a volte cercano per ore degli oggetti. Simonetta ridendo mi chiederà se sono sicura di averla persa e Arturo starà zitto non facendo vedere quello che pensa.


SIMONETTA MANASIA

Una brutta giornata  
 
 Era una giornata di forte libeccio ma Franco e sua moglie ormai avevano deciso di raggiungere il Bagno “Rosalba” a Tirrenia per togliere asciugamani, costumi alla cabina, purtroppo la stagione era finita e sopraggiungeva il non desiderato autunno.   
Le sdraie erano già accatastate con gli ombrelloni chiusi accanto e incutevano tristezza, sparsi sulla sabbia alcuni oggetti portati dal vento: barchette di plastica spezzate, secchielli, bottigliette facevano da contorno a quel panorama, dando un senso di abbandono.   
Mentre la moglie si affrettava a riempire le varie borse, Franco si dirigeva verso la riva del mare ad odorare l’aria piena di salmastro.
Respirando a pieni polmoni osservava un bambino correre seguito dal padre, urlava contento dando sfogo al gran senso di libertà che apprezzava con un sorriso tenero e compiaciuto.
Improvvisamente un’onda anomala afferrava la piccola creatura portandola con sé, e nell’atmosfera riecheggiava l’urlo straziante del padre.
Un attimo e con un balzo felino entrava in quel mare agitato per salvarlo.
Con gran fatica, Franco riusciva a afferrarlo per le braccia e a adagiarlo sulla battigia intravedendo la figura del padre.
Si sentiva perduto, le sue forze si erano esaurite e dopo una fitta fortissima al cuore si lasciava andare in quell’immensità d’acqua.
Un tunnel profondo e lungo si presentava ai suoi occhi e lui doveva passarci per raggiungere il paradiso o l’inferno.
Come in un film una successione d’immagini. Si rivedeva bambino e la sua mamma a braccia aperte lo stava aspettando, mentre il padre distraendolo gli porse un saluto dicendogli:
vieni piccolo eroe, sapevo che ci saresti riuscito,
ero sicuro che le tue doti di altruismo,
disponibilità e amore verso il prossimo
avrebbero prevalso”
A un tratto il viso di sua moglie piangente che gli sussurrava dolcemente “Non mi lasciare, ci sono ancora molti anni da passare insieme e i nostri figli non li abbandonare. Chi racconterà le fiabe ai nostri nipoti.
Francooo,  Francooo, Francoooo  il suo nome riecheggiava nel cervello ascoltando felice quella bella e calda voce.

L’acqua l’avvolgeva e lo portava lontano, lontano da quell’amore, lontano dalla vita ma felice di averne salvata un’altra piena di futuro.
Uscendo dall’acqua come era venuto alla luce  dal grembo materno, era entrato nell’acqua e aveva perso il trascorrere del tempo.
Il libeccio si era calmato e il mare aveva restituito il suo corpo sulla spiaggia, i gabbiani sorvolavano sopra di esso con uno stridore particolare come ringraziamento di quell’atto compiuto da Franco.
Dopo anni un bel giovanotto, alto robusto, bellissimo lanciava un fiore sulla battigia del “Bagno Rosalba” insieme a un’anziana signora.
Dopo una breve preghiera si allontanarono, si abbracciarono forte.   Una vocina piccola urla:
“Nonna, nonna vieni ho un piccolo disegno da consegnare al nonno, vuoi portarglielo tu, per favore”


Torna all’indice