Gruppo scrittura Scarabeus 2019-20
Tredicesimo incontro
ARTUTO FALASCHI
Ponzio Pilato
Il governatore romano, cavallo bianco, mantello rosso, elmo dorato, varcò la grande porta del castello di Erode. Le guardie avevano fatto un passo di lato, quasi a sbarrare l’accesso, ma quando il pugno di Longino afferrò l’impugnatura della spada seguito con un rumore secco dai legionari, desistettero dal tentativo.
Ora Ponzio Pilato era nella corte. Si guardò intorno, con studiata lentezza, sapendo di essere osservato dal re e scese dal cavallo.
Era calmo e rilassato, dopo tanti giorni e mesi di tensione, sicuro di sé come mai prima, ora che il piano rischioso era andato a buon fine e sbarazzarsi di Erode era solo l’ultima formalità. Certo, aveva tremato, divorato dall’ansia quando Gesù e quel brigante, Barabba, stavano davanti al popolo che si era zittito alla sua voce che cercava di nascondere quel leggero tremito delle labbra:
“Chi volete libero, Gesù o Barabba?”
Gli attimi sospesi gli apparvero eterni. Poi l’urlo liberatore:
“Gesù libero, Gesù libero!”
Era fatta: quel diavolo di Giuseppe Flavio, inviato da Tito, aveva visto giusto. Le legioni del futuro imperatore potevano rimanere in oriente dove erano necessarie. Alla giudea bastava lui, Ponzio Pilato e la centuria di Longino.
Quel tale Gesù era stato la chiave del successo.
Il piano costruito con Giuseppe Flavio per salvare Gerusalemme dalle legioni di Tito era stato semplice e complicato al tempo stesso: per porre fine ai continui disordini in Giudea, era stato necessario far fuori il potere sia di Erode (ma quello era solo un pagliaccio) che dei sacerdoti del sinedrio, da sempre ostili al dominio di Roma. Occorreva un uomo carismatico, gradito ai romani, che conquistasse le masse dei contadini che mal digerivano il potere del tempio, li guidasse alla rivolta e si proclamasse re d’Israele.
Giuseppe Flavio sapeva la storia e risaliva all’esilio babilonese per capire meglio la situazione politica attuale. Gli esiliati erano stati una piccola minoranza dei giudei: tutte le famiglie ricche e politicamente importanti. I rimasti in patria ne trassero grossi vantaggi perché fu loro donata la terra sottratta ai primi. Il re fu mantenuto come garante del nuovo ordine e quindi avverso ai deportati. La spaccatura politica che fu così creata divenne anche religiosa. I rimasti in patria svilupparono, con Isaia, la “teologia della promessa” secondo la quale il popolo eletto ed il suo re avrebbero avuta sempre garantita la benevolenza divina a prescindere dagli avvenimenti. Il torto subito dagli esiliati mostrò la loro estraneità alla promessa di Dio e quindi al vero Israele. In un prossimo futuro, Dio avrebbe mandato in terra il Messia quale re garante e realizzatore della promessa. Isaia aveva profetizzato:” un germoglio spunterà dal tronco di Yesse … (padre di Davide).”
Gli esiliati, in contrasto, svilupparono la “teologia del patto” con Ezechiele, secondo la quale Dio avrebbe mantenuto la propria protezione e benevolenza su Israele nella misura in cui il popolo avesse rispettato la legge. Gli esiliati caddero in disgrazia perché peccarono, ma, una volta ravveduti, sarebbero tornati ad essere popolo eletto. Coloro che non furono puniti (i non esiliati) proprio per questo si mostrarono estranei al patto. Anche il re, che abbandonò gli esiliati, si escluse dal patto. La figura del Messia – re fu quindi superflua per Zaccaria o, addirittura, fu identificata con il grande Ciro (unto del Signore, Cristo) che li liberò da Babilonia e finanziò la ricostruzione del tempio.
Al ritorno in patria degli esiliati, scoppiò la guerra civile tra le due fazioni. Prevalsero gli ex esiliati, ma si giunse a un compromesso: gli ex esiliati si impossessarono di Gerusalemme, del tempio e del potere; i residenti rimasero dispersi nelle campagne, ancora piccoli proprietari terrieri ma sfruttati dal Tempio. Molti si rifugiarono in Samaria. Col tempo, si considerarono veri giudei solo gli abitanti di Gerusalemme. Furono questi i veri oppositori al potere di Roma.
Si trattò quindi di trovare, suscitare, quel Messia predetto da Isaia e atteso dalla massa dei contadini e scagliarlo contro il potere centrale. Certo, quel Messia avrebbe dovuto essere non ostile a Roma e gradito agli occupanti romani.
Giuseppe Flavio aveva individuato in quel tale Gesù l’uomo adatto allo scopo.
Gesù era nato in un piccolo villaggio; per questo predicava a lungo nelle campagne dove era seguito da folle numerose; per questo si scagliava contro il potere centrale; da qui il buon samaritano e la donna samaritana; per questo aveva trovato una vera, dura opposizione solo a Gerusalemme. Lui non era il nemico della fede ebraica (teologia della promessa), ma del potere centrale (teologia del patto).
Giuseppe Flavo fece apparire Gesù come un esseno. Ma che c’entravano, nel piano, gli esseni? Anche all’interno del gruppo degli esiliati ci fu lotta, al loro ritorno. La religione maturata durante l’esilio era stata acquisita a due livelli: essoterico, palese, del quale la bibbia faceva fede, rivolto alla massa, ricco di esteriorità rituale, propugnato dai farisei che ne facevano strumento di potere; e esoterico, rivolto a pochi, più spirituale, elevato, incurante di beni materiali e del potere, critico nei confronti del potere stesso. Gli esseni erano i massimi esponenti di tale fede. Ma gli esseni furono cacciati da Gerusalemme sotto minaccia di morte e dovettero rifugiarsi nel deserto. Gesù, come Giovanni battista, manifestava una teologia vicina al pensiero essenico. Tradendo quel pensiero stesso, però, che, per sua natura, non poteva essere comunicato alla folla. Ma quel pensiero era acido corrosivo nei confronti dei filistei ed era indifferente nei confronti dell’impero romano. (il mio regno non è di questo mondo….)
Inoltre, nel manuale di disciplina degli esseni si leggeva: “in quei giorni (i giorni della venuta del Messia) gli uomini dovranno cessare di abitare tra i corrotti per ritirarsi nel deserto dove saranno istruiti coloro che dovranno essere pronti quando la guerra santa sarà comandata”. Gesù diceva: “i tempi sono compiuti, il Regno dei cieli è prossimo… non sono venuto a portare la pace, ma la guerra… In quei giorni, chi ha un mantello lo venda e si compri una spada”.
Ma contro chi la guerra santa? Non contro ai romani: “date a Cesare quel che è di Cesare…” ma contro i farisei: “guai a voi farisei falsi e bugiardi… sepolcri imbiancati…”
Da qui le apparenti contraddizioni tra “ama il tuo nemico”, “lascia anche la tunica a chi ti ruba il mantello” e la violenza nel tempio, le invettive contro i Farisei e l’annuncio della guerra e della discordia all’interno della famiglia.
Il nemico da amare era Roma alla quale era dovuto il tributo anche se poteva apparire un furto. Infatti Gesù si faceva vedere in compagnia dei pubblicani, gli esattori delle imposte romane. La rivolta, invece, avrebbe dovuto esplodere all’interno della famiglia giudaica. I poveri della campagna contro il potere centrale ostile a Roma. La fede essenica avrebbe costituito la base culturale, il motivo esplicito della rivolta.
Così, Giuseppe Flavio e Ponzio Pilato puntarono tutto su Gesù e costruirono con arte la leggenda intorno a lui.
Gesù aveva sangue romano? Il piano prevedeva anche questo. Nel suo “Discorso vero” Celso, intellettuale latino del 1° secolo, scrisse rivolgendosi al Cristo:
“Di essere nato da una vergine te lo sei inventato tu. Tu sei nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata. Questa fu scacciata dal marito, di professione carpentiere, per comprovato adulterio. Ripudiata dal marito e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì da un soldato romano di nome Pantera. A causa della tua povertà, hai lavorato come salariato in Egitto, dove sei diventato esperto in taluni poteri di cui vanno fieri gli egiziani. Poi sei tornato. “
Anche i Magi avevano avuto uno scopo in questo piano. La storia dei tre Magi voleva, evidentemente, rendere importante la figura del Cristo agli occhi dei legionari romani. Perché, tra le varie religioni orientali che erano arrivate a Roma, una delle più diffuse era il culto di Mithra derivato dall’insegnamento di Zarathustra e adorato dai sacerdoti Magi. Tale culto era particolarmente diffuso presso i legionari dove Mithra aveva sostituito Marte. Il racconto dei Magi voleva far accettare Cristo ai legionari. Non era forse il centurione di Cafarnao l’uomo del quale Gesù aveva detto avere fede più di ogni altro?
Molte somiglianze tra il culto di Mithra e la vita di Gesù furono diffuse e avevano colpito. Il pasto sacro con pane e vino (sangue del Dio e fonte di immortalità); i dodici aiutanti di Mithra corrispondenti ai segni dello zodiaco; il tema della nascita in una grotta; il titolo di Salvatore; la misteriosa fecondazione di una vergine; il segno della croce, simbolo della “croce di luce” che rappresentava il Dio.
Gesù parlava aramaico e questo faceva pensare ad una cultura cresciuta non solo nello stretto ambito palestinese. Il suo messaggio, dal punto di vista etico, avrebbe dovuto apparire assai vicino al pensiero stoico. Per questo propugnava l’integrità interiore a discapito delle forme esteriori del culto. Lo stoicismo, infatti, era la filosofia predominante nell’impero romano. Basta pensare a Seneca e a Marco Aurelio. Anche questo lo avrebbe avvicinato ai romani. Il rituale esteriore, al contrario, era il culto praticato al tempio di Gerusalemme.
Ponzio Pilato varcò la soglia del palazzo e si diresse verso lo scalone d’onore, verso il trono vacillante di Erode.
L’ultimo atto di un piano per eliminare la cocciuta opposizione giudaica senza far ricorso alle preziose legioni impegnate altrove e senza danneggiare Gerusalemme, città storicamente importante.
Un piano che aveva fatto leva sulle divisioni interne della nazione ebraica. Da una parte il potere teocratico di Gerusalemme, storicamente e culturalmente legato all’esilio di Babilonia; dall’altra gli abitanti dei piccoli centri, che avevano ereditato le ricchezze degli esuli ed erano stati emarginati al ritorno di questi in patria; propensi, questi, a credersi i depositari della promessa di Dio e in attesa di un Messia loro Salvatore. In margine la setta degli Esseni, portatori di una dottrina esoterica, di sicuro gradimento della massa dei poveri, in netto contrasto con il potere centrale.
Si era trattato di provocare un sollevamento del popolo minuto contro il potere centrale e, al tempo stesso, delegittimato tale potere, stabilire una connessione, una simpatia, tra il popolo e il potere romano in modo da garantire stabilità al paese.
La figura di Gesù sarebbe stato e fu il catalizzatore che avrebbe provocato la reazione voluta. Gesù era figlio del popolo, forse aveva sangue romano nelle vene, era cresciuto in mezzo agli esseni, la leggenda della sua nascita ricordava il dio Mithra caro ai legionari, i Magi avevano garantito per lui; lui era il Messia-re annunciato da Isaia, profeta dei rimasti in patria.
La sua predicazione si era rivolta ai poveri (non ai poveri in spirito, come dirà Matteo, che strizza l’occhio ai ricchi, ma ai poveri tal quali, come dice Luca), si era scagliato contro il sinedrio, era stato tollerante verso i romani, aveva accennato ora alla pace, ora alla guerra.
Poi era andato a Gerusalemme durante la pasqua, quando la gente della campagna andava al tempio, e aveva provocato il potere, sicuro della reazione. D’accordo con Pilato, aveva fatto sì che la sua cattura e condanna fossero stati voluti dai sacerdoti che ne furono responsabili. Entrambi avevano stimolato la reazione del popolo e la reazione c’era stata.
Il popolo aveva condannato Barabba e salvato Gesù, il Messia, il discendente di Davide, re d’Israele. Gesù, salvato dal popolo, si era unito al popolo; spade erano uscite dai mantelli, la turba era salita al tempo, aveva chiesto vendetta sui farisei che torturarono e condannarono Gesù, che chiesero la sua crocifissione. Ma i sacerdoti erano già fuggiti, il tempio era vuoto. A furor di popolo Gesù era stato proclamato re e sommo sacerdote: il Messia di Isaia.
Pilato fu, infine, di fronte a Erode che già tremava. Longino estrasse la spada e la puntò al costato. La guardia del re consegnò le armi.
Gesù apparve dal gruppo dei legionari. La veste bianca ancora macchiata di sangue, del suo sangue. Afferrò il braccio di Longino:
“Chi di spada ferisce, di spada perisce. Basta violenza”.
Pilato offrì a Erode la via dell’esilio. A Damasco già lo aspettavano.
Non ci sarebbe arrivato mai. Sulla via di Damasco un fulmine lo folgorò.
LUCIANA RUSSO
PONZIO PILATO
«Il giovane viso del procuratore romano esprimeva tutto il disgusto che sentiva per quella città, Gerusalemme». La voce si interruppe bruscamente quando la regista lo zittì.
«ma no, non così, la tua voce deve avere un tono ieratico, solenne. E tu, Massimo, ti rendi conto del tuo ruolo?»
Ilaria la regista, quella mattina, era molto arrabbiata e sconsolata. Aveva dato il copione agli attori che lei personalmente aveva scelto nella classe di recitazione dell’ultimo anno, ragazzi fra i sedici e i diciassette anni che ormai seguivano i corsi sin da quando frequentavano le elementari. Il saggio finale si stava avvicinando a grandi passi ma lei non era affatto sicura della riuscita. I giovani attori avevano imparato la parte e la recitavano a memoria con scioltezza ma in realtà non la sentivano. Eppure l’opera da recitare l’avevano scelta insieme. L’idea era venuta dalla lettura del romanzo “Il maestro e Margherita” di Bulgakov. Lei aveva riadattato la parte che parla dell’incontro fra Ponzio Pilato e Yesua e aveva ricavato sei parti, cinque ragazzi e una ragazza. Riproviamoci pensò
«Massimo cammina lentamente lungo il portico e vieni avanti verso Luca cioè Yesua. Luca stai un po’ chino ma non supplicante. Giovanni ricordati che Ammazzaratti è il centurione fidato di Pilato. Esegue tutto quello che gli ordina senza mai far trasparire ciò che sente e dunque il tuo atteggiamento deve essere impassibile ma non indifferente. Mettiti alla sinistra di Pilato un po’ discosto. Ah Ludovico ricordati che gli scribi erano sempre un po’ curvi perché impiegavano la maggior parte del loro tempo a scrivere. Mettiti col tavolino fra Ponzio e Yesua.
La sentinella di guardia si metta alla fine del palcoscenico, d’accordo Emiliano? E tu Portia moglie del grande procuratore starai seduta, in ombra, alla destra di tuo marito ma un po’ lontana»
Gli attori occuparono le loro postazioni. Ilaria guardò il tutto e mentalmente approvò quello che vedeva.
«Allora prima di provare, facciamo il solito esercizio. Raccoglietevi in voi stessi cercando di vivere come in una fase sospesa e pensate a chi siete e cosa sentite.»
Massimo
«io vorrei essere lontano da qui, come il mio personaggio, vorrei avere un cavallo bianco ed essere potente come lo era lui. Mi piacerebbe vedere il timore del popolo al mio passaggio»
PORTIA
«eccomi sulla scena sono Portia ma io mi chiamo Martina. Non mi piace stare in disparte e in penombra. Vorrei la luce e farmi vedere da tutti quando cercherò di assassinare mio marito che odio. Come Martina voglio essere visibile anche nella mia famiglia. Decidono sempre tutto loro, io non conto»
LUCA
«sono contento di avere la parte di Yesua. Sono un protagonista, come Ponzio Pilato. Quando reciterò devo usare tutta la mia parlantina e il mio corpo per convincere il Procuratore che merito di essere salvato. Ma in fin dei conti non è quello che faccio sempre nella vita quotidiana, a scuola, in famiglia e persino con la mia ragazza? Mi spendo sempre a convincere qualcuno che è diverso da me. Ma perché?»
GIOVANNI
Io lo capisco Ammazzaratti. Non parlo molto. La mia forza indiscussa parla per me. Lo vedo quando mi faccio avanti in una lite. Gli altri hanno timore di me e cercano di non contrariarmi. Io invidio Luca perché lui parla, parla e convince tutti ma io non lo so fare.
EMILIANO
«sono contento di fare la sentinella con poche battute me la cavo ma sono in scena per tutta la rappresentazione. Ilaria ha indovinato la parte che mi si addice perché molto spesso la voce mi trema. Ho sempre paura»
LUDOVICO
«la regista vuole che io scriva tutto il tempo o quasi. Ne approfitterò per scrivere una pagina del diario che tengo ogni giorno. Non voglio perdermi nulla dei momenti che precedono la separazione dei miei genitori. Voglio registrare gli ultimi istanti della nostra vita insieme»
Ilaria fece trascorrere alcuni minuti poi incrociando le dita dette il comando d’iniziare.
Ponzio Pilato entrò nel portico avvolto dal suo manto rosso. La guardia scattò sull’attenti con la lancia in avanti. Ammazzaratti teneva una mano pesante sopra Yeshua e lo scrivano era già con la penna alzata. Solo Portia indugiava con lo sguardo sulla città di Gerusalemme in lontananza.
PAOLO BARONI
Storia di Ipazia la filosofa
Era il giorno del quattordicesimo compleanno della mia Ipazia. All’ora del tramonto, quando tutti i suoi amici avevano lasciato la festa che avevamo organizzato per farle gli auguri, decisi di raccontarle la storia della sua omonima, Ipazia la filosofa. Ci sedemmo sotto il gazebo del giardino e cominciai.
«Al tempo del regno dell’imperatore romano Teodosio I, nella città di Alessandria d’Egitto viveva una donna bellissima che rispondeva al nome di Ipazia».
«Me ne ha parlato papà, ma senza andare nei dettagli», precisò la ragazza.
«Ipazia era la figlia di Teone, un famoso matematico e astronomo che lavorava presso la celebre biblioteca della città, erede della scuola alessandrina in cui avevano studiato le menti più illuminate dell’antichità, da Euripide a Euclide, da Eratostene ad Archimede e Tolomeo.
La protagonista di questa storia aveva una mente brillante e un carattere forte, profonde conoscenze in tutte le scienze, compresa la musica, in tutti i sistemi filosofici e in modo particolare in quello neoplatonico».
«Neoplatonico. L’ho già sentita questa parola ma …».
«Il Neoplatonismo fu una forma di pensiero sviluppatasi dalla metà del secondo secolo con lo scopo di dare nuovo impulso ai concetti di Platone. Ad Alessandria in particolare, era orientata verso la metafisica, cioè quelle metodologie del pensiero che cercano le cause e il “perché” di ogni cosa.
Ipazia era insuperabile nella dialettica, nell’insegnamento e nella scienza sperimentale. Inventò e perfezionò strumenti innovativi, come l’astrolabio, per misurare l’altezza degli astri nel cielo e aiutare i naviganti a trovare la rotta, l’idroscopio per osservare il fondo del mare, l’aerometro per misurare la densità dei gas. Pensa che all’età di vent’anni era già famosa per la libertà del suo pensiero e per la generosità del suo animo. Era solita declamare le sue lezioni al popolo, senza distinzione fra ricchi e poveri, donne e uomini, cristiani, ebrei o pagani.
A quel tempo l’Egitto era governato da un prefetto romano, però, il contrasto maggiore si aveva nei riguardi della religione. Il Cristianesimo infatti si andava diffondendo velocemente e si stava sostituendo agli altri credi religiosi. Eminenti e influenti personaggi s’impegnarono in quegli anni a favore della supremazia della Chiesa romana: Ambrogio a Milano, Agostino di Ippona nel nord Africa, Giovanni Crisostomo a Costantinopoli. Ad Alessandria, le personalità più attive furono il vescovo Teofilo e in seguito il vescovo Cirillo.
Il fragile equilibrio che ad Alessandria aveva mantenuto l’ordine e una certa armonia fra le religioni si ruppe quando l’imperatore Teodosio I, sotto lo stimolo del vescovo di Milano Ambrogio, emise un editto che impose la fede cristiana a tutti i sudditi e mise al bando le altre pratiche religiose: quella ebraica e il culto delle divinità greche e romane. Teodosio dette così il via a un lento processo di avversione contro la grande tradizione scientifica e filosofica dell’antichità.
La figura di Ipazia, donna razionale e libera, impegnata nella ricerca di verità sperimentabili, entrò in contrasto con la politica antiscientifica e antifemminista del cristianesimo di quegli anni e il conflitto fra la filosofa-scienziata e il popolo cristiano istigato da Teofilo stava per accendersi. Era il 391 d.C.
La scintilla si innescò quando il vescovo ottenne il permesso imperiale di trasformare in chiesa un tempio di Dioniso provocando la ribellione del popolo elleno».
«Popolo elleno? Non si trattava di egiziani?» chiese Ipazia.
«Si parla di elleni e di età ellenistica o alessandrina, appunto, per descrivere la diffusione della civiltà greca dopo le conquiste di Alessandro Magno. Si era diffusa particolarmente in Egitto, nel Medio Oriente e in Asia. L’espressione elleno assunse anche un significato di “pagano” contrapposto a ebreo o cristiano.
Come conseguenza della concessione imperiale di abolire il tempio di Dionisio, i pagani compirono violenze contro i cristiani e poi si asserragliarono nel Serapeo, il grande tempio dedicato a Giove Serapide. La rivolta fu domata dalla milizia romana e il popolo dei cristiani, guidato da Teofilo distrusse il Serapeo e la più grande biblioteca dell’antichità che era conservata in quel luogo fu data alle fiamme. In quegli scontri furono uccisi Teone e alcuni filosofi-sacerdoti».
La mia ragazza interruppe il racconto e guardandomi con i suoi occhi verdi illuminati dal sorriso di chi è sicuro che non sta chiedendo solo un semplice dettaglio, chiese: «Ada, qual era il rapporto fra la neoplatonica Ipazia e la religione?».
«Ipazia e tutti i neoplatonici avevano a cuore ciò che trascendeva la vita arida di ogni giorno. Uno dei temi preferiti dai neoplatonici, mille anni dopo, sarebbe stato quello di cercare di scoprire il rapporto dell’uomo con Dio».
«Quello che non capisco allora è perché i Cristiani si scagliavano contro chi si dedicava a questi temi abbastanza in sintonia con la loro fede. Posso comprendere il conflitto fra religioni, ma non capisco l’odio verso questa scienza e questa filosofia».
«La cosa non è semplice da spiegare. Il Cristianesimo, in particolare quello di quegli anni così travagliati, era alla ricerca di una linea comune di dottrina e il sospetto e l’astio specialmente verso ebrei e pagani erano all’ordine del giorno. La scuola di Ipazia era illuminata dalla luce del dio Serapide, cioè Giove, inoltre la filosofa, aveva assunto un ruolo molto vicino a quello di una sacerdotessa, anche se con caratteristiche molto diverse rispetto ai sacerdoti delle altre religioni».
«I pagani erano il vecchio, mentre i Cristiani rappresentavano la novità, Ada?».
«Proprio così, vecchio contro nuovo. Però, sostituire il vecchio con il nuovo in questo caso non significava solo abolire le vecchie divinità romane ed elleniche, ma ancora di più la loro cultura che era entrata in conflitto con la fede cristiana. I romani si sono sempre interessati alla letteratura, al diritto, all’architettura, elementi che difficilmente potevano infastidire la spiritualità cristiana. I pagani ellenici avevano invece una solida tradizione matematica, scientifica e filosofica, tramandata alla comunità degli studiosi dagli scritti dei grandi maestri del pensiero greco come Talete, Democrito, Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele. Sbarazzarsi del vecchio significava cancellare anche tutto questo».
«Allora fu quasi naturale che il Cristianesimo imposto da Roma volesse cancellare, insieme agli ebrei, uccisori di Cristo, non solo i templi dei pagani, ma anche le loro biblioteche, i musei, le scuole».
«Beh, naturale, non direi, fu un atto barbaro e irreversibile che gettò il pensiero umano indietro di secoli.»
«Continua con il racconto, Ada, mi interessa molto, anche se so che finisce nel sangue», propose la mia Ipazia.
«In quello stesso anno, il 391 d.C., il generale barbaro pagano Arbogaste eliminò l’imperatore d’Occidente Valentiniano II, cognato di Teodosio che invece regnava a Costantinopoli. Questi reagì immediatamente e il conflitto che ne derivò acquisì i caratteri di un duello tra paganesimo e cristianesimo. Teodosio sconfisse Arbogaste e tre anni dopo, divenne imperatore di tutto l’impero romano decretando la supremazia della fede in Cristo.
Ad Alessandria si viveva sempre più in un clima di estrema tensione: la contrapposizione tra cristiani, pagani ed ebrei si fece ancora più aspra. Nel 414 avvenne un massacro di cristiani ad opera di ebrei, il vescovo Cirillo, che era succeduto nel frattempo a suo zio Teofilo, reagì al fatto cacciando gli ebrei dalla città e trasformando le loro sinagoghe in chiese.
Il nuovo vescovo era destinato a entrare in aspro conflitto anche con Ipazia e con la sua scuola ellenistica. Ogni cosa li divideva. Cirillo, che era l’esponente della nuova burocrazia ecclesiale, rappresentava il potere. Ipazia, che apparteneva alla vecchia aristocrazia locale, era detentrice di cultura e sapienza.
Chi avrebbe dovuto appianare la questione era il rappresentante dell’impero, il prefetto Oreste. Questo funzionario, seppure battezzato, era solito assistere alle lezioni di Ipazia e ciò contribuì a screditarlo agli occhi del vescovo e dei cristiani della città e a convincerli che la valente filosofa fosse una figura troppo influente e pericolosa anche nel campo politico. Doveva scomparire. Non si saprà mai con certezza se fu Cirillo in persona a ordinare l’uccisione di Ipazia. Si narra che la filosofa fu catturata per strada da un branco inferocito di cristiani, una milizia forse composta da monaci o più verosimilmente barellieri, chiamati parabolani, guidati da un certo Pietro il lettore. La donna fu trascinata nella chiesa del Cesareo, le furono strappate le vesti e fu atrocemente smembrata usando cocci o conchiglie affilate. I poveri resti di Ipazia furono trasportati nella discarica e furono bruciati come immondizia.
Oreste chiese un’inchiesta; Costantinopoli mandò ad Alessandria un certo Edesio, il quale, forse perché corrotto dal vescovo, non fece assolutamente nulla. Gli assassini rimasero impuniti. Con la morte di Ipazia, scomparve una delle più esemplari comunità scientifiche di ogni epoca».
«Finisce così? Nessuno dei suoi allievi, dei suoi seguaci ha mai tentato di vendicarla, di dare un significato alla sua vita, o alla sua morte?» mi chiese la ragazza con un filo di voce.
«Cirillo e i suoi seguaci sono riusciti a cancellare ogni traccia delle opere di questa scienziata che è rimasta dimenticata per oltre un millennio».
«Nessuno dei suoi contemporanei ha scritto di lei?».
«No, qualcuno le ha reso testimonianza. Socrate Scolastico ha scritto una versione abbastanza oggettiva della vicenda e ha gettato grossi dubbi sull’operato di Cirillo. Egli usò queste parole per descriverla, aspetta, leggo nei miei appunti…: “…era giunta a un tale culmine di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia, ricevere in eredità l’insegnamento della scuola platonica derivante da Plotino, esporre a un libero uditorio tutte le discipline filosofiche […]. Da ogni parte accorrevano a lei quanti volevano filosofare”.
E poi ci fu Sinesio, allievo e coetaneo di Ipazia che divenne vescovo cristiano di Cirene e di lei scrisse che era “la veneratissima filosofa da Dio prediletta“; gli altri allievi della scuola di Alessandria sono “la beata schiera che ascolta la voce mirabile” di colei che rimarrà sempre “adorata maestra“, “benefattrice“, “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata”, dall’anima divinissima“. Infine ti posso citare Damascio, un filosofo neoplatonico vissuto qualche decennio dopo, che ha accusato apertamente Cirillo di essere non solo l’istigatore, ma il mandante dell’assassinio».
Ipazia disse: «Ada, io conosco appena Platone, ma ignoro chi fosse Plotino».
La sete di conoscenza che bruciava dentro la mente della mia ragazza mi stupiva ogni volta, anche se ormai dovevo essermi abituata ai suoi occhi indagatori.
«Un giorno studierai bene che il grande filosofo Platone divideva l’uomo fra anima e corpo e che Plotino, che visse nel III secolo d.C. prima ad Alessandria e poi a Roma, concepiva il mondo diviso fra luce e buio. L’oscurità era mancanza di luce, quindi, esisteva solo come negazione del divino, che Plotino chiamò L’Uno. L’anima dell’uomo, diceva, è una scintilla del barlume divino, che splende in noi così come in tutti gli esseri viventi».
«Non mi sembra molto distante dal pensiero di chi crede in Dio».
«Infatti il Neoplatonismo di Plotino ha influenzato molto il Cristianesimo e le religioni monoteistiche in generale. Però, occorre aggiungere che per questo filosofo L’Uno non emana per volontà ma per necessità, è il fondamento necessario di tutte le cose; quindi il Dio dei Neoplatonici non si può identificare con il Dio che crea dal nulla liberamente. Plotino ha anche influenzato il concetto della Trinità cristiana. Egli dice che l’Uno emana l’Intelletto, il Logos (il mondo delle idee per Platone, il Verbo, cioè il Figlio dei Cristiani). L’Uno emana anche L’Anima del mondo dà forma e ordine alla materia dell’universo fisico e introduce la dimensione del Tempo. Questo fa pensare allo Spirito Santo dei Cristiani che, mandato dal padre conduce il mondo alla salvezza)».
« Credo di aver perso un passaggio, Ada, da dove viene la materia, secondo il suo pensiero?»
«Per Plotino la materia è alla fine del processo di emanazione ed è plasmata dall’Anima».
«La materia è irradiazione della luce divina?»
«Esatto, cara Ipazia, ma è ciò che più ne è distante».
«Uhm, – fece Ipazia con un’espressione dubbiosa – E l’uomo? Qual è il ruolo dell’uomo in tutto questo?»
«L’uomo è chiamato a superare il mondo della natura per avvicinarsi alla luce dell’Uno. Dovrà percorrere questa strada attraverso tre gradini: la Virtù, che è la disposizione ad agire bene, attraverso l’Amore per la Bellezza, attraverso lo studio della Filosofia, che significa amore per la conoscenza, infine attraverso l’Estasi, intesa come lo stato supremo durante il quale l’uomo si sente unito alla luce divina».
Ipazia, mi guardò annuendo leggermente e stringendo le labbra. Poi, improvvisamente mi chiese: «Ada, per te, chi fu effettivamente Ipazia d’Alessandria?».
«Ipazia fu una ricercatrice della luce. La luce della filosofia e della scienza. Fu una donna dal pensiero libero, innamorata del Cosmo, un essere non violento che amava la scoperta, che seguiva la Logica e la Ragione, le doti migliori della mente umana; fu una maestra che preferì includere più che escludere e che purtroppo si dovette scontrare con l’arroganza maschile del potere e con il cristianesimo scandaloso di Cirillo».
Dopo che ebbi dato questa risposta, la voce del Dott. Bruni ci sorprese e ci fece sobbalzare entrambe. «Ipazia fu una donna che, come tutte le donne del suo periodo, visse tra i pregiudizi di una religione che non consentiva partecipazione politica, filosofica, scientifica, che considerava la donna un essere inferiore adatta solo a servire l’uomo in silenzio e a procreare».
Aveva parlato dagli scalini del Gazebo e, nonostante i concetti aspri che aveva espresso, ci guardava con sguardo affettuoso.
«La storia delle vicende umane mi confonde, papà», gli confessò Ipazia, «l’uomo dà dimostrazione di grandezza e di bassezza e la Giustizia sembra essere una rarità».
«Piccola mia, hai affermato una grande verità, disse suo padre, anche il famoso filosofo e matematico Blaise Pascal ha affermato che la grandezza e la miseria dell’uomo sono profondamente connesse: asserì che l’uomo è grande proprio perché è consapevole della sua miseria».
Dette queste parole, il padrone di casa si avviò verso la villa: «Stasera vi porto fuori a cena, signorine, venite a farvi belle».
Ipazia sollevò lo sguardo verso il rosa vellutato del tramonto e restò in silenzio per alcuni secondi. Poi guardandomi negli occhi aggiunse: «Davanti a uno scenario così non è difficile entrare in contatto con l’Universo, Ada». Mi prese per mano e, mi portò verso casa. Ebbi l’impressione che quella sera sarebbe stata molto importante e non solo per lei.
ANITA MATTEELLI
Lavarsene le mani… come Pilato
Sapeva che, l’apostolo Giuda l’avrebbe tradito per ingordigia di denaro, quel giovedì della Pasqua Ebraica, dopo l’ultima cena insieme ai dodici apostoli.
Sapeva che Pietro l’avrebbe rinnegato per tre volte prima del canto del gallo, che gli altri apostoli l’avrebbero abbandonato quella notte dell’arresto.
Sapeva che, dopo il tradimento di Giuda che avvisa i sacerdoti dove avrebbero trovato Gesù, sarebbero venuti a prenderlo nel giardino del Getsémani dove stava pregando, per sottoporlo a processo da parte delle autorità politiche e religiose ( Anna Caifa, il Sinedrio, Pilato, Erode Antipa)
Il tribunale ebraico gli contestò, un’accusa teologica, “la bestemmia per essersi equiparato a Dio”.
Mentre il tribunale politico, l’accusava di reato di lesa maestà, per essersi proclamato “RE dei Giudei” sobillando il popolo con insegnamenti che Lui riteneva fossero “la verità”
Sapeva dove lo stavano portando quei sandali e quelle guardie romane.
Sapeva che questi passi sicuri e incerti allo stesso tempo, lo avrebbero condotto alla sua condanna.
Sapeva che non poteva sottrarsi, tutto era scritto perché voluto dal Padre. Il figlio di Dio, doveva solo rispondere a delle domande.
Sapeva che non sarebbe bastato a salvargli il martirio.
Sapeva che non poteva sottrarsi neppure a tutto ciò che da li a poco avrebbe dovuto subire, che quella notte, prima dell’arresto, avrebbe avuto una tremenda agonia e con grandi sofferenze e sudato sangue.
Sapeva che tutto era inevitabilmente necessario.
Sapeva che il Padre tramite il sacrificio del Figlio voleva dare la dimensione di quanto grande fosse il Suo amore per gli uomini per dar loro la possibilità di redimersi.
Sapeva che, proprio gli uomini tanto amati dal Padre, nonché da Lui, gli avrebbero perpetrato torture, lo avrebbero schermito, flagellato e gli avrebbero rivolto cattiverie inaudite fino alla crocifissione sulla Croce di legno, pena inflitta ai condannati per gravi reati.
Sapeva che, dopo l’interrogatorio Pilato, non trovando motivo di condanna così estrema come la crocifissione, dopo averlo fatto fragellare, lo avrebbe liberato.
Sapeva che il popolo avrebbe gridato di crocifiggerlo, a quel punto Pilato trovandolo innocente, decise di “lavarsene le mani” davanti al popolo per levar via il senso di colpa, e tenendo anche conto dei consigli della moglie molto superstiziosa, certa che quella condanna così ingiusta, avrebbe portato loro negatività.
Sapeva che Pilato avrebbe deciso che fosse il popolo a giudicarlo, avvalendosi della circostanza che, poiché nelle vicinanze della Pasqua, vigeva l’usanza di liberare un condannato, avrebbe proposto loro chi tra il condannato e Gesù volevano salvare.
Sapeva che il condannato da salvare al posto Suo sarebbe stato Barabba, un criminale responsabile di una sommossa, omicidio e rapina, insomma un assassino, con la condanna a morte.
Sapeva che il popolo avrebbe incalzato a gran voce Pilato di salvare Barabba e così fu!
Per questo la condanna capitale a Gesù fu subito emessa da Pilato e subito nel giorno del venerdì fu eseguita mediante crocifissione.
Sappiamo come sono andate le cose poi.
Quella Croce esposta in ogni chiesa, in ogni casa, o in dosso, a chi crede, ci dovrebbe ricordare che lo scopo nella vita è quello di dare e ricevere amore…perché chi ha vero amore nel cuore è molto vicino all’umanità, sa prendere decisioni di giustizia, fare le migliori scelte di vita, scegliere insomma, la VERITA’ tanto predicata da Gesù.
L’atto di Pilato è un atto di vera viltà, nel concetto popolare la figura di Pilato è rimasto il simbolo di chi, avendo incarichi di responsabilità, evita pavidamente e con ipocrisia, di prendere posizione e pronunciare un giudizio. L’ atto di “Lavarsene le mani come Pilato” è rimasto un modo di dire e di fare ancora ai giorni nostri.
NADIA PAOLACCI
… avvolto in un manto bianco… (e Ponzio Pilato “se ne lavò le mani”)
Padri e figli.
L’uomo, Carlo, quando aveva circa dieci anni e frequentava la Parrocchia, aveva appreso la storia della crocefissione di Gesù, e ne era rimasto impressionato, a causa dell’indecisione di Ponzio Pilato.
Il suo carattere in formazione, senza che lui se ne rendesse conto, aveva subito un ricordo indelebile di questa storia, che si era svolta centinaia di anni fa, ma che era ancora raccontata nelle chiese cattoliche.
Ogni volta che assisteva ad una funzione religiosa, gli ritornava in mente la prima volta che ascoltò questa tragica vicenda.
Gli anni erano passati, era cresciuto tra momenti di difficoltà e momenti quasi normali, che si erano succeduti fino a quando aveva maturato la coscienza di essere diventato adulto.
Spesso, si imbatteva in situazioni che avevano bisogno di soluzioni rapide e sensate per risolvere momenti imbarazzanti o pericolosi.
Anche in famiglia, aveva l’abitudine di non esprimere mai, con decisione un suo pensiero.
Una volta si era trovato coinvolto in una rissa tra balordi e un gruppo di suoi amici. Non aveva partecipato attivamente alla scazzottata, ma era rimasto un po’ in disparte. Non se la sentiva di prendere una posizione netta in tutto quel caos.
Il rimprovero, inesorabile arrivò puntuale.
«Si può sapere perché non sei intervenuto? Potevi fare qualcosa e darci una mano. Quei tizi erano più di noi, e ne abbiamo prese un sacco e una sporta. E tu sei anche ben piazzato fisicamente. Avresti potuto risolvere a nostro favore quella rissa!»
Con gli occhi bassi, non rispose. Non sapeva bene il perché, ma era sempre indeciso a prendere posizione su un qualsiasi avvenimento. Semplicemente se ne stava in disparte, guardava cosa succedeva, e se ne lavava le mani.
Si sentiva appagato da queste soluzioni. In definitiva aveva fatto come Ponzio Pilato. Non sono affari miei, sbrigatevela voi. Succeda quello che succeda.
Gli anni erano passati, e si era innamorato di una ragazza del quartiere, forse anche più riservata di lui.
Il matrimonio, e dopo la nascita di due figli. Il primo Francesco, e per secondo una femmina, Lucrezia.
Gli anni passarono velocemente, i figli crescevano. Grandicelli, si erano trovati degli amici, che frequentavano sempre più di spesso.
Francesco, stava sempre più di frequente fuori casa, rientrava tardi la sera. Dimagriva, e a volte i suoi ragionamenti non erano facilmente comprensibili.
Ne parlò con la moglie, e così nacquero i primi sospetti. Forse si drogava. La conferma fu come una pugnalata. Doveva parlarne con il figlio, al più presto.
Ma per la sua abitudine consolidata di rimanere in disparte, non trovava mai il momento per iniziare a comunicare con il figlio.
Finalmente un pomeriggio, affrontò l’argomento. Francesco ammise che era vero tutto, ma che non riusciva a smettere. Chiese di essere aiutato, in qualsiasi modo. Carlo provò a dare dei consigli, ma erano quasi inesistenti. Quella era una soluzione grave, da non sottovalutare, da affrontare con decisione, e rapidamente, anche con modi che potevano sembrare aggressivi.
Il tempo passava, e il figlio, era sempre più schiavo della droga. Il padre se ne rendeva conto, ma il carattere debole non lo spronava a prendere in mano quella storia.
Ancora un paio di volte, provò a riparlare con il figlio, con risultati deludenti. Il ragazzo sembrava convinto sul momento, ma poi era tutto come prima o forse peggio.
Un giorno decise che doveva esserci un colloquio più convincete dei precedenti.
«Ne abbiamo già parlato qualche volta, caro Francesco, ma tu non mi dai ascolto. Non so più cosa dirti. Le mie sono parole portate via dal vento. Ti avverto per l’ultima volta! Se non cambi davvero, ti avverto che di te me ne laverò le mani».
Credeva di esser stato finalmente convincente. Mai era stato in un qualsiasi momento così duro, pensava lui. Ma le cose non cambiavano.
Incominciò a disinteressarsi del figlio. “l’ho avvertito che me ne sarei lavato le mani.”
Pensava di essere a posto con la sua coscienza.
Poi all’improvviso successe quello che nemmeno immaginava potesse accadere. La vita abbandonò Francesco.
Solo allora Carlo si rese conto di essersene “lavate le mani “della condotta del figlio, ma troppo tardi si era accorto che erano “più sporche di prima”.
MILENA VOX
Un amore non corrisposto
Quando arrivò, lui la guardò sorpreso e innervosito da quella presenza, scomparve. Lui, così delicato, affettuoso, mostrava ora un’indifferenza sdegnosa, mostrando di volersi estraniare dalla nuova situazione che si andava creando.
Lei, inizialmente non dette peso alla reazione di lui e cercò di abituarsi alla sua nuova condizione nella quale si sarebbe sentita presto a suo agio. Lo cercava, ma lui si sottraeva offeso a qualsiasi approccio, un’inquietudine senza nome gli faceva presagire che il suo mondo fatto di tranquillità, di sogni ad occhi aperti e chiusi e di affetti esclusivi sarebbe stato minacciato in modo irreparabile, che in qualche modo sarebbe stato scavalcato, che avrebbe perso la sua supremazia e con essa la sua dignità.
Preferiva perciò lavarsene le mani, altri avrebbero pensato a lei.
Le sue paure presero corpo quando lei cominciò con i primi dispetti, le provocazioni ad arte, le false effusioni, le prepotenze.
Cercava di irretirlo con suadenti smancerie per prendere il suo posto e costringerlo ad allontanarsi a precipizio.
Così era impensabile andare avanti, doveva trovare un luogo dove lei non avrebbe potuto raggiungerlo.
Per un anno rimase lassù, sull’armadio, scendendo solo per le sue necessità, poi si rassegnò ad un finto ruolo di comprimario perché lei aveva quasi sempre la meglio.
Lei, la metà di lui ma con un animo da indomita combattente.
Lei, la gattina tricolore, Trixie.
SIMONETTA MANASIA
Le mani innocenti
Giorgio ormai adulto conservava ancora quella piccola maglietta bianca con schizzi di tinta nera per ricordarsi sempre del comportamento inaccettabile che aveva avuto verso un compagno di classe alla scuola elementare.
Quell’episodio l’aveva cambiato molto, da un bambino remissivo e ubbidiente era diventato un ribelle e determinato nel raggiungere obbiettivi prefissati.
Torniamo indietro nel tempo di ben venti anni, Giorgio frequentava la quarta elementare e sempre aveva avuto come compagno di banco Giuseppe.
All’inizio di quell’anno scolastico entrò a far parte della loro classe un nuovo alunno proveniente dal Senegal.
La maestra si guardò intorno ed ebbe la meravigliosa idea di spostare Giuseppe due banchi indietro, sapendo benissimo che io ero l’unico che non si sarebbe ribellato alla sua decisione.
Amir era il nome del nuovo entrato i suoi occhi esprimevano dispiacere e spavento nello stesso tempo, ma l’espressione dei miei erano pieni di rabbia anche se in realtà non era certo colpa sua.
Il primo mese non gli rivolsi la parola e non cercai mai di aiutarlo nonostante le sue difficoltà sia d’inserimento sia nel profitto.
Carlo, altro compagno di classe, un figlio di papà era il leader, faceva spesso il bullo specialmente verso Amir ed io non riuscivo a difenderlo perché la sua presenza aveva allontanato il mio migliore amico.
Fu così che un giorno Carlo decise di fare uno scherzo ad Amir, si tinse la mani con una tinta nera e durante l’intervallo quando la tinta fu asciutta sottrasse il cellulare dalla borsa della maestra, facendosi filmare l’azione , naturalmente riprendendo solo le mani scure che sottraevano l’oggetto.
Finito l’intervallo, la maestra si sedette di nuovo alla cattedra cercando nella borsa il cellulare e non trovandolo si rivolse alla classe per conoscere la verità sull’accaduto.
Carlo consegnò il film registrato pochi minuti prima per far in modo che Amir fosse il colpevole del fattaccio.
La maestra arrabbiatissima prese con forza Amir e lo portò in Presidenza per fargli dare la giusta punizione.
Giorgio pur assistendo all’episodio ed essendo pure complice avvertì un forte colpo allo stomaco, guardando Amir allontanarsi piangendo e urlando la sua innocenza.
Contai fino a venti poi di corsa raggiunsi la stanza della preside esposi la vera versione dei fatti e fui felice di discolpare quel silenzioso bambino venuto da lontano che ne aveva subite troppe da tutti noi.
Fummo sospesi per quattro giorni, giustizia era stata fatta e a me saltò subito alla mente che proprio quella mattina del triste episodio , la maestra ci aveva illustrato la figura di Ponzio Pilato.
Ritornando in classe dalla presidenza, orgoglioso, con lo sguardo rivolto all’ insegnante dissi “Ho fatto molto bene a comportarmi così vero!, io non ho voluto come Pilato lavarmene le mani”.
Amir e Giorgio diventarono grandi amici e non si persero più di vista.
Oggi insieme fanno parte di un’associazione volontaria che aiuta i popoli dell’africa.