Gruppo scrittura Scarabeus 2019-2020
Terzo incontro
ARTURO FALASCHI
Binet al mare.
“Dunque, signor Binet, mi racconti il fatto”.
“Di nuovo?”. Era maledettamente scomodo quel divano. Avesse potuto almeno stare seduto… ma no, disteso, diceva il dottore.
” Di nuovo”.
“Era terribile il mare quella mattina di primo autunno. Non ricordo di avere mai visto un mare così. Ma i miei ricordi non valgono molto, come lei sa.
Quel moccioso giocava con i cavalloni, da solo, e prima che io gli urlassi di venire via, l’onda lo prese e lo trascinò verso il largo.
Mi buttai subito, senza pensare, ma il mare era più forte di me. Non lo trovavo, la schiuma mi accecava e sotto non si vedeva niente. Lo toccai, per caso, e riuscii ad afferrargli un braccio o una gamba, non so. Lo spinsi verso terra con quanta forza avevo ma presto la presa mi sfuggì e un’onda più forte mi travolse.
È una sensazione terribile: il rotolare con l’onda e la mancanza di gravità fanno perdere il senso dell’orientamento; non sai più dove sia l’alto e il basso, il qui e il là.
Confusamente sentivo che il ragazzo era ancora con me e che la sua vita dipendeva dalla mia.
Ma mi sentii perso, e lui con me, finché un piede toccò il fondo. Allora spinsi, con tutte le mie forze e riuscii a emergere. Una nuova onda mi spingeva verso terra; l’assecondai, nuotando forte e finalmente mi alzai in piedi e raggiunsi la battigia.
Mi voltai cercando il ragazzo, ma non c’era più. Il mare se l’era preso. Eppure sapevo, non capisco come, di averlo salvato. Infatti, quella donna disperata, la madre supposi, mi abbracciò e mi ringraziò. Alzai lo sguardo ma la spiaggia era deserta e la sabbia, sollevata dal vento, mi feriva gli occhi”.
“E voi, ogni anno … “.
“Si, ogni anno, a inizio autunno, io e quella signora torniamo sul posto e portiamo una rosa. La lasciamo sulla spiaggia, sapendo che lui verrà a prenderla. Lei mi abbraccia come allora e, senza parlare, andiamo via”.
“Un fantasma … “.
“No, dottore, non un fantasma: un uomo, quel ragazzo che io ho sottratto alla morte”.
“Bene, molto bene. Ora lei sente il bisogno di venire da me perché … Me lo dica, me lo dica di nuovo”.
“Ho delle amnesie, dottore, amnesie totali, sempre più estese, sempre più gravi. Mi vengono attribuiti gesti, parole, interi fatti di cui non ho memoria. Così lontani da me da pensare di essere preda di un qualche colossale scherzo, una congiura alla quale prendono parte tutti.
Io sono un insegnante, come lei sa, eppure è come se, oltre alla mia vita, ne avessi un’altra di cui non sono cosciente.
Sono consapevole di avere vissuto dei periodi della mia giornata rispetto ai quali non ricordo assolutamente niente, per quanti sforzi di memoria faccia”.
“Basta così per oggi, signor Binet. Alla prossima settimana, stessa ora”.
“Dunque, signor Binet, mi racconti il fatto”.
“Di nuovo?”. Era comodo quel divano, specialmente da disteso, come chiedeva il dottore.
” Di nuovo”.
“Era terribile il mare quella mattina di primo autunno. Non ricordo di avere mai visto un mare così. Ma i miei ricordi non valgono molto, come lei sa.
Ero un moccioso incosciente e mi sono messo a giocare con i cavalloni che mi attiravano sempre più al largo senza che me ne rendessi conto. Finché un’onda più alta mi prese e mi trascinò via. Udii qualcuno che gridava poi la schiuma mi accecò e sotto non si vedeva niente.
È una sensazione terribile: il rotolare con l’onda e la mancanza di gravità fanno perdere il senso dell’orientamento; non sai più dove sia l’alto e il basso, il qui e il là.
Mi sentii perso ma, confusamente avvertivo una presenza vicina a me. Poi una mano mi afferrò sotto l’ascella e mi spinse con forza verso la riva. Il contatto durò poco e la mano mi perse. Ma la spinta continuava, non so come. Era come se quella forza ora fosse dentro di me.
Un piede toccò il fondo. Allora spinsi, con tutte le mie forze e riuscii a emergere. Una nuova onda mi spingeva verso terra; l’assecondai, nuotando con una forza e una capacità che non mi appartenevano; finalmente mi alzai in piedi e raggiunsi la battigia.
Mi voltai cercando il mio salvatore misterioso, ma non c’era più. Il mare se l’era preso. Eppure sapevo, non capisco come, di averlo salvato con me. Infatti, quella donna disperata che era mia madre mi abbracciò e ringraziò qualcuno che non vedevo. Alzai lo sguardo ma la spiaggia era deserta e la sabbia, sollevata dal vento, mi feriva gli occhi”.
“E voi, ogni anno … “.
“Si, ogni anno, a inizio autunno, io e mia madre tornavamo sul posto e trovavamo, sulla sabbia, una rosa. Qualcuno, lui, la lasciava sulla spiaggia, sapendo che saremmo venuti a prenderla. Lei mi abbracciava come allora e, senza parlare, raccoglievamo il fiore e andavamo via”.
“Un fantasma… “.
“No, dottore, non un fantasma: un uomo, quell’uomo che mi ha sottratto alla morte”.
“Bene, molto bene. Ora lei sente il bisogno di venire da me perché … Me lo dica, me lo dica di nuovo”.
“Ho delle amnesie, dottore, amnesie totali, sempre più estese, sempre più gravi. Mi vengono attribuiti gesti, parole, interi fatti di cui non ho memoria. Così lontani da me da pensare di essere preda di un qualche colossale scherzo a cui prendono parte tutti.
Io sono un assicuratore, come lei sa, eppure è come se, oltre alla mia vita, ne avessi un’altra di cui non sono cosciente.
Sono consapevole di avere vissuto dei periodi della mia giornata rispetto ai quali non ricordo assolutamente niente, per quanti sforzi di memoria faccia”.
“Basta così per oggi, signor Binet. Alla prossima settimana, stessa ora”.
Il sig. Binet uscì. O sarebbe meglio dire: uscirono.
Il dottore chiamò un numero, al telefono:
“Caro collega, come avevamo intuito è un caso di doppia personalità. Accade.
Impossibile dire chi sia l’annegato e chi il salvato, dal momento che la madre è morta. Inutile anche: sono entrambi morti ed entrambi sopravvissuti. La loro disperata volontà di vivere si è incarnata nell’unico corpo sopravvissuto, disponibile.
Non è un caso così eccezionale, come ben sai. In tutti quanti noi, nei nostri, per noi unici, corpi si assommano un numero più o meno grande di personalità, qualche volta armoniche, qualche altra in contrasto tra loro. L’io stabile non è che un compromesso tra i vari io possibili. Il compromesso può essere ottenuto “democraticamente”, eleggendo un leader che, ogni tanto, dà anche voce agli io dissidenti permettendo loro di rilasciare l’energia repressa; oppure stabilendo una tirannide dell’io egemone nel qual caso agli altri non resta che l’inconscio, i sogni e, al limite, la nevrosi.
Nel nostro caso, nessuno stabile compromesso è stato raggiunto. Dopo lunga lotta senza vinti né vincitori, solo la separazione era possibile. Due io distinti si sono spartiti un solo corpo. Perché un solo corpo sopravvisse a quell’evento.
Come un dottor Jekill e mister Hyde, se vogliamo; un Faust e Mefistofele”.
“Il fatto è – rispose l’altro – che io ho incontrato la madre in questione. La signora, ormai molto vecchia, che è morta nel racconto del figlio salvato, ma viva secondo il salvatore. Alla mia inevitabile domanda ha risposto che Binet, suo figlio, è il sig. Binet che rischiò la vita per salvarlo. Ha detto che dal mare uscirono, con un corpo solo, due anime; e che lei aveva vissuto con entrambi, ora con l’uno, ora con l’altro; che li aveva amati allo stesso modo: l’amore per il figlio e l’amore per chi glielo aveva restituito. Se la vuoi incontrare, ti mando l’indirizzo. Ma fai presto perché l’ho vista proprio male.
Ti saluto”.
Era ormai fine settembre quando il dottore si decise ad andare a far visita alla signora. Non era in casa, era in ospedale, ricoverata d’urgenza. Era morta da poco, quando giunse là. Del sig. Binet nessuna traccia.
Colto da un’improvvisa ispirazione, si precipitò alla spiaggia, nel luogo esatto che tante volte il sig. Binet gli aveva descritto: il posto del salvataggio e del rituale della rosa.
C’era una piccola folla, i vigili del fuoco, i sommozzatori in acqua. Il mare era in tempesta.
Chiese a un tale con la canottiera da bagnino.
“Si è buttato, con questo mare. Non ho fatto in tempo a fermarlo. È scomparso subito. I sommozzatori non lo trovano. Lo conoscevo, veniva sempre qui a guardare il mare. Qualche volta portava una rosa e la lasciava sulla sabbia. Poi tornava, con una signora, raccoglieva la rosa e la portava via. Secondo me, quello aveva qualche rotella fuori posto”.
“Ma non è quello lì?”
Il bagnino trasalì, gli occhi di fuori: “Sembra proprio lui…”
Il sig. Binet si avvicinò, una rosa gialla in mano: “Era un ragazzo incosciente. Non è mai cambiato. Sono arrivato tardi, questa volta”.
Mostrò al dottore la rosa poi, quasi senza guardare, la lanciò in mare.
SIMONETTA MANASIA
Volontà di cambiare con intelligenza
La maestra aveva convocato Mario, presso la scuola elementare “ De Amicis”
causa, una nota fatta al figlio per comportamento non corretto in classe.
Rifletteva tra sé e sé, pensando a cosa mai avesse combinato Carletto, dato il suo carattere calmo e rispettoso.
Era molto deluso e non vedeva l’ora di scambiare due parole con la docente.
Erano passati pochi minuti che per Mario sembravano ore e a un tratto la porta si aprì e si presentarono due signore: la preside e la maestra.
Signor Filippi mi dispiace dovergli dire che suo figlio ha consegnato il compito di matematica quasi in bianco perché stava mandando messaggi a una bambina con il telefonino.
Questo era il motivo della convocazione che fece restare Mario esterrefatto e consapevole di ciò, assicurava alle signore, che lui avrebbe preso seri provvedimenti.
Durante il tragitto da scuola a casa osservando attentamente le azioni che si svolgevano intorno a lui e non vedeva altro che persone col cellulare in mano: mentre attraversavano, mentre avevano in collo il bambino, mentre guidavano, sempre e dappertutto.
Arrivato a casa cominciò a elaborare un qualcosa che potesse cambiare queste abitudini attuali, partendo da educare immediatamente la nuova generazione.
Molto motivato iniziò a progettare un percorso a tappe che i bambini con le loro maestre dovevano e potevano affrontare naturalmente lasciando a casa il cellulare.
Come nel gioco dell’oca composto con diverse cartelle, i bambini dovevano compiere varie azioni leggendo le regole e rispettandole.
Prima tappa sfidarsi con i giochi da tavola,
Seconda tappa ideare un festival di canzoni e gare di ballo dando sfogo sia alla loro energia fisica sia a quella vocale.
La terza era dedicata allo sport, ognuno doveva descrivere la disciplina sportiva che frequentava e la doveva insegnare a un altro. Favorendo il movimento e no la sedentarietà davanti ad un tablet.
La quarta casella doveva sollecitare emozioni giocando con i cinque sensi:
udito, vista, tatto, gusto, odorato. Inventarsi varie azioni con lo scopo di sviluppare questi sensi. Ognuno di loro avrebbe dovuto inventare dei gesti o comportamenti per accrescere tali sensi. Un esempio bendare un bambino metterlo al centro per assaporare tutto ciò che i suoi compagni vogliano comunicare con parole oppure abbracciandolo, fargli sentire l’odore di una pianta etc, etc.
Tutto questo per farli apprezzare che lo stare insieme guardandosi negli occhi è meraviglioso. E’ bello parlare con la persona che hai davanti cogliendo tutte le sue espressioni allegre o deluse.
Allenarsi, divertirsi, ballare, cantare lasciare con convinzione quel mezzo di comunicazione micidiale che ci allontana da tutto e da tutti.
Mario aggiunse al suo percorso la possibilità che anche i genitori potessero partecipare a questi incontri facendo capire loro che le regole valgano anche per gli adulti, presentandosi naturalmente senza il cellulare.
Il passatempo migliore e stare in contatto con il figlio.
Scrutare le sue reazioni, le sue emozioni e tanto altro.
E’ necessario sollecitare l’ascolto con più attenzione e non lasciare la nostra generazione sola davanti ai videogames o alla televisione.
Dobbiamo capire che i contatti umani ci fanno crescere e ci arricchiscono e noi genitori dovremmo essere di esempio e criticare aspramente questa dipendenza dagli smartphone.
Il telefonino deve essere usato per emergenze, per necessità, essere di aiuto nelle difficoltà.
Le tecnologie moderne vanno sempre avanti, nessuno le può fermare ma è l’uso che noi uomini né facciamo che ci deve riflettere e incentivare rimediando così a tutte le cose negative che quegli attrezzi portano con sé.
PAOLO BARONI
La storia del rosso porpora
«Nonno, devo fare una ricerca sui fenici». Claudio, undici anni appena compiuti, capelli con un ciuffo prepotente, un’espressione furbetta negli occhi castani, si rivolge al genitore di suo padre che sta beatamente seduto sulla poltrona del salotto di casa sua. La tv spenta riflette la luce del pomeriggio che sta tingendo di rosa il cielo della città. Andare in quella vecchia casa nel centro storico quando i genitori sono fuori per lavoro è una parentesi piacevole. Questo pomeriggio essere dal nonno sarà non solo piacevole, con tutte quelle cianfrusaglie da scovare nei cassetti, ma anche molto utile. La prof di storia ha fatto appuntare sul diario: fate una ricerca sui Fenici, facendovi aiutare da un componente adulto della vostra famiglia. «Mi raccomando –ha aggiunto alzando l’indice– non fatevi dettare, ascoltate e prendete appunti. Domani verifica in classe».
Insomma un compito difficile che i suoi genitori, avevano accolto con una smorfia di sconforto. Ma il nonno no. Lui, con i suoi modi pacati e gentili sarà sicuramente orgoglioso di aiutarlo.
«Nonno la prof ha detto che devi raccontarmi una vicenda, sui Fenici. Parla lentamente– scandisce il ragazzo– io scrivo».
«Ehi, signorino… chi credi di prendere in giro? La professoressa ti ha detto di fare esercizio di dettato? Non ci credo. Fammi vedere il diario!».
«No, beh… tu parli e io prendo qualche appunto… risponde il ragazzo con un sorriso fra i denti.
«Ah, così va meglio».
«Cominciamo. –fa Claudio– Titolo: il mio…puntini puntini, e io scrivo “nonno”; mi ha raccontato la storia di… puntini puntini… e io… che cosa mi racconti?»
«Vediamo… Hai detto che la professoressa ha parlato dei Fenici. Di che cosa in particolare?».
Che erano un popolo antichissimo di navigatori e commercianti e poi che… ma dovrei prendere il libro di storia…»
«No, no. Dimmi quello che ti ricordi della lezione. Sei stato attento durante la spiegazione?»
Certo. I Fenici derivavano dal popolo dei Cananei e prosperarono, lungo le coste dell’odierno Libano, poi colonizzarono il Mediterraneo fino ad arrivare in Africa dove fondarono Cartagine».
«Tutto qui? Sai dirmi il nome di qualche città fenicia, oltre a Cartagine che era una colonia e sorse molto tempo dopo?», chiese il nonno.
«Non mi interrogare! Devi raccontarmi una storia che parla dei Fenici», protesta Claudio con voce risentita.
«Va bene ma per raccontare devo capire che cosa sai…»
«Racconta, non ti preoccupare. La prof non vuole che mi interroghi al posto suo».
«Va bene, –acconsente il vecchio– allora ti racconto la storia di… di come i Fenici scoprirono come tingere i tessuti del colore rosso porpora».
Rosso cosa?
«Porpora. Conosci gli aggettivi purpureo, porporino…? Significano rosso, un rosso intenso come il sangue e il fuoco».
«Ah sì, il porpora ce l’ho fra le matite. È un rosso scuro quasi amaranto».
Appunto. I Fenici, popolo di origine semitica, come hai detto, erano navigatori e mercanti e con la scoperta della porpora il commercio dei tessuti prosperò».
«Che cosa vuol dire “di origine semitica”, chiede Claudio che non ama tralasciare niente quando imparava cose nuove.
I semiti sono gli Arabi, gli Ebrei, i Cananei…
«Ma la parola semitico che cosa significa?» insiste Claudio piccato.
«Nella Bibbia si racconta che uno dei figli del patriarca Noè si chiamava Sem. I suoi discendenti formarono le popolazioni che furono dette appunto semiti e parlavano lingue semitiche. Ma torniamo ai Fenici. Questa gente, circa 6000 anni fa…»
«Aspetta, prendo qualche appunto», dice il ragazzo aprendo il blocco notes.
Il nonno ripete: «Circa seimila anni fa questa gente migrò fino alle coste del Mediterraneo. Dietro di loro si estendeva un territorio desertico, davanti, un mare ricco di promesse. Fu così che divennero marinai. Non possiamo sapere con precisione quando misero la prima nave in acqua, certamente molti anni dopo il loro insediamento sulle coste di ciò che oggi chiamiamo Libano e Siria. Essi solcarono acque inesplorate, oltrepassarono le colonne d’Ercole, cioè lo stretto che separa l’Europa dall’Africa, risalirono le coste dell’Atlantico. Insomma, conobbero territori e popoli diversi, scambiarono merci e conoscenza. Un merito grandissimo che fu potenziato dalla scoperta del rosso porpora».
«Chi fu a scoprire questo colore?», incalza il ragazzo sinceramente incuriosito.
«Se la tradizione non inganna, questa scoperta andrebbe riconosciuta a un piccolo e docile quadrupede, un cane».
«Come un cane», si meraviglia Claudio.
«Sì, un giorno, questo animale affamato si aggirava sulla spiaggia alla ricerca di cibo e, ad un tratto, scorse una conchiglia sulla battigia. L’addentò con la speranza che ci fosse dentro qualcosa da mangiare e non ne staccò il muso fin quando la conchiglia non fu pulita come un piatto rigovernato. Il suo padrone, probabilmente un pescatore fenicio, si accorse che il cane aveva la bocca macchiata di rosso. “Povero animale, si sarà ferito con il guscio tagliente”, pensò e provò a detergere il muso del cane. Ma non riuscì a togliere quelle macchie in nessun modo; il rosso non se ne sarebbe andato più. Era stata scoperta la porpora, quella sostanza colorante che, tratta da migliaia di molluschi, avrebbe donato alle stoffe un colore rosso così bello e vivo che il mantello colorato con la porpora sarebbe diventato sinonimo di dignità regale. L’artigianato fenicio della colorazione dei tessuti divenne una delle attività più fruttuose di questo popolo: i primitivi villaggi di pescatori si trasformarono presto in splendide città: Tiro, Acri, Biblo. Empori sparsi dappertutto nel bacino del Mediterraneo, furono gli avamposti di questa gente laboriosa dalla mente acuta».
«Bella questa storia, grazie, nonnino. Non credo che mi sarà difficile scriverla domani, –afferma il ragazzo mentre trascrive sul quaderno i nomi delle città– aspetta mi scrivo anche la data: 6000 anni fa. Sai la prof stamani ha parlato del 4000 a.C. Secondo me hai ragione te, nonno. Tu sai molte più cose di lei».
L’uomo scuote la testa sorridendo.
«Ah! Ma è la stessa cosa! Che tonto sono! Immagina che figura avrei fatto… 6000 anni fa, 4000 a. C.». Ride di gusto
«Che stai facendo Claudio? Ridi nel sonno? Alzati dai, sono le sei. Ieri mi hai chiesto di raccontarti una storia sui Fenici. Guarda ho qui Wikipedia». Il babbo, in pigiama è vicino al letto. La luce dello schermo di un tablet illumina il volto assonnato del ragazzo. Claudio apre gli occhi. “Era tutto un sogno –pensa– il nonno non c’è più. I suoi racconti, la sua casa che profumava di cose buone, le sue cianfrusaglie… Tutto svanito”.
«Il nonno… –balbetta Claudio– mi ha raccontato la storia del rosso porpora».
Il nonno? –chiede il babbo con un taglio incredulo delle labbra– hai sognato una delle storie che ti raccontava il nonno? Mi fa molto piacere che ti ricordi di lui».
«Sì. Una delle sue vecchie storie… Lasciamo stare Internet babbo. Il nonno è molto ma molto più utile».
LUCIANA RUSSO
Codice Rosso
I telefoni all’unità di pronta emergenza suonavano in continuazione e il personale addetto stabiliva anche il codice d’intervento.
“ urgentissimo ambulanza. Incidente mortale sul lungomare all’altezza della baracchina bianca di San Iacopo”. La dottoressa Paoli seguita dagli infermieri di turno si precipitò sul mezzo mentre l’autista azionava la sirena. Stavano tutti zitti in attesa di arrivare sul luogo dell’incidente. Oddio pensava un volontario non è che quando quella dottoressa era in servizio si potesse tanto chiacchierare. Era soprannominata il mastino. Non che non fosse brava, anzi era altamente qualificata ma non concedeva niente, non si rilassava mai e così facendo anche il personale a suo seguito era sempre sulla difensiva.
Arrivarono pochi minuti dopo l’incidente e i vigili del fuoco erano già lì che tentavano di estrarre il corpo di un giovane uomo dalle lamiere. La dottoressa con un balzo si mise dietro al capo che coordinava le operazioni. Guardò il ferito e con un urlo bloccò tutti. S’era accorta che dalla giugulare usciva del sangue. Ancora un minuto e l’avrebbero perso. Velocemente fece subito una prima operazione per fermare l’emorragia e poi si scansò per consentire ai vigili di estrarre il corpo. Vide che aveva della bava bianca alla bocca e scuotendo il capo pensò che si sarebbe ammazzata di fatica per salvare la vita all’ennesimo drogato di merda. Disse ad alta voce” Eccoli, vanno in discoteca, bevono, si fanno e poi finiscono la loro vita così. Eh però prima ti chiamano perché devono scassare fino in fondo” Gli infermieri e i pompieri la guardarono ma rimasero impassibili. Solo uno con voce flebile disse” Guardi che era un poliziotto in servizio”.
Lei fece un sogghigno e quasi sottovoce disse< chissà a quale disgraziato l’aveva presa la roba. Magari gli avrà fatto anche la paternale”. Appena tirato fuori dalle lamiere della macchina il ferito smise di respirare. La dottoressa se ne accorse e subito scavalcando i pompieri, immediatamente attaccò il defibrillatore al petto dell’uomo e cominciò a contare. “Via vai ora” diceva in maniera isterica all’infermiere dietro di lei che azionava la corrente. Il petto dell’uomo si alzava ma appena smetteva la scarica elettrica del congegno si afflosciava senza vita. Lei non si dava per vinta provava e riprovava quasi piangendo. Gli infermieri e l’autista si guardavano sempre più perplessi. Ancora un tentativo pensava la dottoressa. «Dai ritorna in te, ritorna fra noi. Ti piacerebbe andartene così eh? Non vedere la faccia di tua moglie e farle sapere che ti fai. Perché lei certamente non lo sa. I familiari non si accorgono mai di nulla. Dai. Dai». E improvvisamente il cuore del poliziotto dette un battito debole ma era certo un segnale di vita. La dottoressa smise. Esausta lo guardò e inaspettatamente dalla sua mano partì un ceffone sull’uomo che stava ritornando alla vita. L’autista le fu accanto e le fermò il braccio da cui sarebbe partito un secondo colpo.
All’orecchio le sussurrò: «Dai Lisa basta. ora è finita». Avvicinò la sua testa alla sua con fare affettuoso. Lei si girò e fu come se si sgretolasse al tocco di quella testa accanto alla sua. “Scusa Leo, non volevo. Lo so che non è mio figlio Francesco ma è quello che avrei voluto fare quando lui, morendo, m’ ha fatto scoprire che era imbottito di cocaina. Era brillante, incantava tutti con la sua parlantina ma l’ho saputo troppo tardi a cosa era dovuta la sua vivacità. Sono arrabbiata, troppo comodo andare via così senza dire nulla, senza spiegare. Perché non mi ha detto niente? Dove ho sbagliato? Perché?” Ormai urlava e singhiozzava davanti a tutti. Leo le tenne una mano sulla spalla e dolcemente la fece salire accanto al posto del guidatore. I volontari caricarono il corpo sull’ambulanza e a tutta velocità, a sirene spiegate, si diressero verso l’ospedale. Gli uomini a bordo guardarono il poliziotto che aveva ripreso vita ben sapendo che la sua vera tragedia era appena cominciata.
NADIA PAOLACCI
VITA
Aveva risposto ad un richiamo. I manifesti posti in ogni angolo del Paese:
“ Fai il Carabiniere, imparerai a proteggere i cittadini, conoscerai la tua Nazione “.
Sta ridendo pensando a quello che aveva letto, che messaggio ridicolo!
L’uomo con la barba lunga, gli occhi lucidi di eccitazione che l’alcool fornisce, il volto scavato, l’abito dimesso, seduto in un angolo del bar, si guarda attorno inseguito dai suoi fantasmi.
L’impegno richiedeva istruzione di Diritto Penale, Civile, Militare e Amministrativo. Specializzazione in Arti Marziali , forza fisica e coraggio.
Nei primi tempi ti cuciono addosso la divisa, imparare a ubbidire e a ramazzare , chinare il capo, poiché il precetto prevede che non pensi, ma che tu esegua gli ordini.
Ti mandano lontano dalla tua terra di origine, e tu che hai scelto di servire la Patria, vieni sradicato dal Paese natio che ti ha visto nascere, crescere, coltivare amicizie e vivere con i parenti.
Vai in un luogo lontano, Italia sempre è ma tu che hai masticato il dialetto, come lingua principale, non ti ritrovi, non compendi i tuoi commilitoni che, a loro volta, hanno un dialetto diverso dal tuo.
Le regole sono vecchie, se trovi la fidanzata, ti mandano lontano da lei, l’amore potrebbe distrarti dai tuoi doveri.
Che cosa ti ha portato a questa scelta ? Il desiderio di portare ordine, in un mondo via via sempre più caotico. Tristezza, solitudine, incomprensione … ti sei detto più di una volta, che questo è il prezzo che va pagato per arrivare a solide conclusioni. L’Arma è piena di tradizioni, ricca di storia, con momenti di gloria, te lo dici mille volte al giorno, poi ti rendi conto che lo scoramento che ti accompagna diventa sempre più profondo . Poi giungi alla conclusione: ho scelto questo per guadagnarmi il pane, il paesello non offriva altro. Tu devi imparare che la base del Regolamento vuole che l’individuo si spersonalizzi .
Il Carabiniere deve essere pronto ad ogni evenienza, il Superiore decide per lui.
Nella sua mente un po’ annebbiata sfilano le situazioni più disparate che ha dovuto affrontare; la malavita è divenuta endemica in alcune città, quando ti ci sei trovato a contrasto , hai capito che il tuo intervento è di poca utilità, come potevi tu sradicare un malcostume che da anni , guidava quel quartiere o addirittura la città ?
Questi teppisti che un tempo si accontentavano di scippi e truffe , ora , hanno dato vita ad una organizzazione capillare e scientifica, e tu di fronte a ciò ti sei sentito solo ed inutile .
Che fa il Carabiniere ti chiedi : corre va nelle mischie, ogni giorno esce di casa senza sapere se ci tornerà. Quando fai il servizio di vigilanza negli stadi, ti devi guardare da coloro che sono giunti lì con lo scopo di creare disordine, in nome di che cosa? Del tale calciatore che, come mercenario, passa di squadra in squadra, diventando ora l’idolo contestato l’anno precedente.
E quando acciuffi un ladro, il rapinatore, lo conduci in camera di sicurezza, il giorno successivo te lo ritrovi a piede libero, che ti guarda con fare beffardo.
Colpa dei Giudici? Colpa delle carceri affollate? Colpa delle Leggi che non sono severe?
Immagini corrono nella tua mente, tra tante esperienze negative, un flash: Roma, Piazza del Popolo, un cittadino su un cornicione di un palazzo, vuole uccidersi, grida, pronuncia frasi sconnesse, manifesta la sua disperazione.
Un pubblico silenzioso, con lo sguardo rivolto in alto, il telone dei pompieri steso pronto per attutire la caduta !
Tu Carabiniere, che non sei neanche in servizio, Sali le scale precipitosamente, vai vicino all’aspirante suicida, gli parli! Che cosa gli hai detto non si sa, l’uomo ti ascolta, iniziano a dialogare a lungo, finché insieme scendono le scale.
Non sei un eroe, non vuoi esserlo, hai fatto ciò che umilmente ti sei sentito di fare.
Una vita vissuta sperando di migliorare qualcosa.
Entra nel bar un gruppo di adolescenti, gli si rivolgono, ridacchiano … ed il più sfacciato: «Vecchio puzzi ! Quanti bicchieri hai bevuto oggi?»
MILENA VOX
Pennette assassine
Pennette assassine – Si possono provocare tre danni in un sol colpo? Si può, si può! “Signora, lei ha superato la fase più acuta dell’infezione, i parametri stanno rientrando nella norma, può iniziare a mangiare qualcosa cucinato a casa che sia di suo gradimento, così si tira un po’ su!” La notizia era confortante: la pastina servita due volte al giorno languiva sempre inerte e sconsolata nel piatto, il pollo o il trancio di pesce con contorno di verdure lesse ammiccavano speranzosi in un gradimento sia pure tardivo, parziale, ma pur sempre barattabile con un netto rifiuto. Niente da fare, tutto veniva inesorabilmente riportato nelle cucine ospedaliere quasi intoccato. Eppure suor Antonietta, pur avendo subito in intervento di tumore, traballante con le sue sacche sanguinolente, si avvicinava al tavolo e mangiava tutto fino all’ultima briciola! Sorprendente!! “Sa, suor Antonietta, ho frequentato la scuola elementare nel suo istituto, fino alla terza” le avevo detto, certa che le avrebbe fatto piacere, omettendo tuttavia che infine la mamma aveva deciso di iscrivermi alla scuola pubblica, vuoi per le rette esose, vuoi per l’insegnamento che non la soddisfaceva. “ E’ stata nostra alunna” – raccontava suor Antonietta, indicandomi con orgoglio alle sue consorelle in visita ed alla madre superiora che annuiva accondiscendente e compiaciuta. Gianni si impegnava al massimo nel preparare piccole, gustose quantità di alimenti che sapeva graditi a sua mogli Rita: insalata di avocado, pasta con olio extra vergine di oliva dei migliori, pezzetti di pollo con contorno di carote e zucchine, tutto ben condito e appetitoso. “Oggi tocca a te, Milly. Devi preparare la pasta al gratin.” “Come si fa? Io non so” “Oh, è semplicissimo, alterni strati di pasta con formaggi vari, condisci con parmigiano, olio, latte e il gioco è fatto.” “Ok, ci provo.” Col passare dei giorni, altre compagne di stanza occupavano il letto accanto a quello di Rita. Era piccolina la signora Nella, dall’aspetto umile e dimesso ma che comunicava bontà ed ottimismo, accompagnata dall’affetto rumoroso dei figli e da una nuora sempre premurosa verso di lei. A suo modo, cercava di consolare Rita: “Anch’io ho avuto la vostra stessa esperienza l’anno scorso, sono rimasta in ospedale per quaranta giorni (Rita aumentava il suo pallore), ma poi ho superato tutto, vedrete andrà bene anche a voi!” La sera prima del suo intervento, peraltro non invasivo, con nostra sorpresa e silenziosa incomprensione, la signora Nella aveva serenamente cenato con i suoi cari con focaccia e coca-cola. Il giorno seguente non si era sentita tanto bene: il suo intestino si era ribellato! Mi accingevo a confezionare la teglia di pasta al gratin. Era tutto pronto: pasta, parmigiano, olio, mozzarella, latte e anche un po’ di burrata, poca però, troppo grassa. Ho infornato. La signora che assomigliava in maniera sorprendente all’attrice Judie Dench era molto riservata e sopportava in dignitoso silenzio la sua sofferenza, ma alla fine si era risolta a chiamare un infermiere perché le desse qualcosa che potesse alleviare i suoi dolori lancinanti. “Che c’è? Cosa è successo?” le aveva chiesto con trattenuta insofferenza l’infermiere dopo ripetute chiamate. (di solito, dopo la distribuzione della terapia, gli infermieri, anche se ce n’erano di bravi, “si rinchiudevano nelle loro stanze”). Con nostra sorpresa e sgomento, Judie Dench non aveva la figlia accanto a sé dopo l’intervento, noi non lasciavamo mai Rita da sola. “Controllo se la pasta è cotta . . forse sì, forse no, la lascio nel forno ancora un po’” Acc!! Una bella scottatura al polso! “Non mangio nulla” affermava la matriarca benestante quando i suoi figli venivano a trovarla. A noi non risultava, mangiava tutto e con buon appetito. La badante della matriarca, una volta malamente apostrofata da un infermiere : “Tornate nel vostro paese, cosa ci venite a fare qua?” l’accudiva silenziosa e paziente. “Penso sia pronta, sì, ci sono delle pennette un po’ troppo cotte, ma quelle non le metto nella porzione per Rita.” E Rita le aveva gustate ed apprezzato la mia preparazione. Adesso stava meglio, potevamo lasciarla da sola per un paio di ore e tornare a casa per pranzo dove ci attendeva la “deliziosa” pasta al gratin che, messa in forno per scaldarla, si mostrava sbruciacchiata in più parti, ma dopo una mattinata in ospedale, c’era poco da scegliere e disprezzare. “Porca miseria! Mi è saltato un pezzo del dente ricostruito, proprio davanti, come faccio ad andare al lavoro, quando lo trovo il dentista?” – si lamentava mia sorellaAngela – questa pasta è troppo cotta! Presa da crisi isterica, salmodiando fra i denti improperi non propriamente eleganti, dopo aver sbatacchiato un po’ di roba in qua e in là a dimostrazione del suo “disappunto”, aveva svuotato il suo piatto nel secchio della spazzatura. Ero mortificata, ma avevo le mie colpe. “Vedi Milly – mi spiegava paziente Gianni – hai messo poca mozzarella, erano necessari più latte e più olio”. Ma il peggio doveva ancora venire! Rita aveva chiesto di averne ancora un po’ per cena di quella deliziosa pietanza. Bel problema!! Scelta la pasta più morbida (ormai ne restava poca, avevo aggiunto, ahimè, qualche pennetta più secca) anche stavolta Rita aveva gustato la sua porzione ma… dopo una mezz’ora, aveva cominciato a sentirsi male: sudori freddi, occhi sbarrati, perdita di conoscenza, insomma una crisi vagale causata da mal digestione! Ero una quasi assassina!! “Lei deve mangiare solo quello che le passa l’ospedale!” – avevano tuonato gli infermieri questa volta prontamente accorsi- mentre io cercavo di appiattirmi da qualche parte – il pasto è calibrato sulla sua situazione!” Ma come? Avevano detto …. Certo, se la cuoca fosse stata più accorta e, diciamolo, più brava, forse non sarebbe successo nulla!! Odio la pasta al gratin e, giuro, non la cucinerò mai più!!
ANITA MATTEELLI
Quelle strane…visioni!
Che cosa stava accadendo?
Chi erano quelle figure di uomo, donna, o bambino che apparivano all’improvviso in salotto e allo stesso modo sparivano, sempre quando si trovava sola in casa? Erano forse fantasmi che volevano comunicarle qualcosa? O altrimenti di cosa si trattava? Paura, grande paura!
Di certo non stava sognando, perché ogni volta che le vedeva era in piedi, aveva preso il caffè, telefonato alla figlia, salutato il marito uscito che si recava al lavoro, spalancato le finestre, insomma era sveglissima.
Si sentiva confusa, spaventata, doveva capire che cosa stava accadendo, era forse iniziata una malattia del cervello a causarle queste visioni?
Decise di scrivere in un taccuino, data, ora in cui accadevano questi strani episodi, chissà un giorno sarebbero potuti servire e, se fossero continuati ne avrebbe parlato con il marito e anche con il medico, al momento non se la sentiva perché si vergognava pensando che fossero visioni e che non l’avrebbero creduta o comunque minimizzato il tutto come era solito fare il marito quando si lamentava di qualcosa, credendo in quel modo di calmarla.
Gli “strani” episodi non avvenivano tutti i giorni e, quando niente accadeva si tranquillizzava pensando che fossero finiti così tirava un sospiro di sollievo.
Per un po’ tutto filava nella normalità, ma restava il fatto che erano accaduti e, se si fossero ripresentati si sarebbe decisa a scoprire l’arcano e a coinvolgere finalmente, marito, figlia, medico e, nel caso anche con la polizia.
Ogni volta che entrava nel salotto si guardava intorno timorosa. e anche se le visioni non l’avessero più assillata, restava il fatto che erano capitate, se le aspettava da un momento all’altro, aveva perso la pace.
Le persone che vedeva le sembravano vere in carne ed ossa, e nello stesso tempo sembravano anche inconsistenti, ombre ben definite, ma non si azzardava ad avvicinarsi o a parlargli per chiedere chi fossero e cosa volessero perché terrorizzata.
Quando iniziava a convincersi che le visioni fossero finite, all’improvviso le figure di persone apparvero di nuovo, questa volta si trattava di un uomo e una donna, entrambi giovani, li guardò e, agitatissima ebbe la forza di scappare dalla stanza e di corsa raggiungere la porta di casa che aprì tremando per andare a suonare alla vicina di rimpetto.
Appena la porta della vicina si affaccio, concitata tentò di raccontarle cosa stava accadendo nel suo salotto e che per gentilezza andasse con lei in casa sua così avrebbe potuto vedere con i propri occhi quelle strane persone mute.
Per mano, in silenzio e vigili, parlandosi solo con gli occhi e a cenni, arrivarono in salotto, le due persone erano ancora li, si muovevano come se fossero ombre, quasi a scatti, ora davanti al divano, vicino alla finestra, poi addirittura sdraiate sul soffitto.
La padrona di casa era stravolta, gli occhi sbarrati, ma, con la vicina accanto, prese coraggio e cominciò a gridare come una forsennata, chiedendo loro chi fossero, che cosa volessero, che se ne andassero, stava impazzendo.
Mentre lei gridava con quanto fiato le restava, chiedendo alle figure di dire chi fossero e di sparire, la vicina iniziò una risata fragorosa, incontenibile, rideva talmente tanto che le scendevano lacrime come se piangesse, allibita la signora smise di gridare, si voltò verso di lei chiedendole il perché di tutto quel ridere sfacciato in un momento così delicato. Tra un singhiozzo e l’altro delle risate la vicina riuscì a dirle che la stessa cosa era capitata anche a lei, che si tranquillizzasse, non si trattava né di fantasmi, né di suoi problemi al cervello, né di extraterrestri. Aveva scoperto, facendo indagini insieme al marito, che era un gioco che avevano organizzato dei ragazzi del palazzo davanti con i quali suo marito era riuscito a parlarci. Il loro scopo era giocare e fare due risate per scacciare la noia, proiettando appunto delle immagini di persone riprese per strada o al parco con la videocamera e, con un apparecchio tecnologico da loro stessi adattato per l’occasione, si divertivano a mandare le immagini dentro casa degli inquilini del palazzo che avevano di fronte dove abitavano le due signore.
La protagonista sconcertata e anche arrabbiata si calmò, ma al momento non riuscì a riderci, era …sfinita!