Gruppo di scrittura Scarabeus
Settimo incontro
ARTURO FALASCHI
Prigione.
Abbiamo provato anche con la piramide umana. Ci siamo arrampicati gli uni sulle spalle degli altri per quanto fosse possibile ma non siamo riusciti a toccare quel grande soffitto azzurro, translucido, che copre la prigione e impedisce la fuga verso l’alto.
Si aveva l’impressione che lui, quella specie di coperchio, si allontanasse impercettibilmente mano a mano che noi salivamo.
Questo insuccesso avvalorava l’ipotesi di quelli che pensavano di potere evadere passando sotto le mura; scavando, insomma.
A me ripugnava quello scavare, quello scendere sempre più giù, nella melma puzzolente, in gallerie sempre più buie, per uscirne fuori delusi e, per giunta sporchi fino agli occhi.
C’era perfino chi pensava che fuori dalla prigione non esistesse niente. Che solo la prigione fosse reale, quasi una bolla chiusa che galleggiasse nel vuoto, anzi, nel nulla addirittura. Quelli, allora, non cercavano più di evadere: evadere per andare dove? Nel nulla? Non aveva senso.
Quelli vivevano così, facendo quello che doveva essere fatto per sopravvivere, coltivando l’orto, accudendo agli animali, giocando, litigando, in fondo accontentandosi di quello che la prigione poteva dare.
Il fatto è che nessuno dei prigionieri aveva memoria di una sua vita fuori dalla prigione, prima della prigione, e questo avvalorava la tesi del nulla esterno. Come se ognuno di noi fosse nato all’interno della prigione, anche se nessuno ricordava il momento in cui sarebbe nato qui.
In fondo, nascere qui o provenire da chissà dove erano la stessa cosa se non avevo ricordi di un prima.
L’idea più diffusa, che poi era anche la mia, raccontava di un farmaco che ci fu iniettato prima di sbatterci qui; un farmaco che avrebbe cancellato ogni memoria di una vita precedente e avrebbe così evitato in partenza qualsiasi tentativo di fuga. Come fai a pensare di fuggire se non c’è un posto in cui fuggire?
Però a qualcuno, a me per esempio, quella iniezione non aveva fatto del tutto effetto. Certo, non ricordavo niente che non fosse legato alla prigione e a qualche fallito tentativo di fuga, eppure c’era una strana sensazione, una vaga intuizione che quel luogo chiuso non fosse tutto; che la mia permanenza qui avesse un senso solo se ci fosse un là, oltre le mura, oltre il pavimento, oltre quel cielo irraggiungibile.
Quasi come se quell’aldilà indefinibile, inconoscibile, fosse la meta. Ma non una meta astratta e irraggiungibile, anzi, uno scopo, un destino, una finale realizzazione.
Quasi come se la prigione fosse davvero una prigione: un luogo chiuso dove si espiava una colpa sconosciuta o mai commessa, dove avveniva una sorta di rieducazione, di apprendimento, in vista di un chissacché, di una definitiva liberazione.
Di una evasione, in fondo. Un’evasione che era possibile solo esplorando minuziosamente la prigione, solo conoscendone ogni dettaglio, fino a trovare lo spiraglio giusto, il pertugio, il raggio di luce verso quell’esterno fatto di libertà.
Era quello che da anni stavo facendo.
Avevo esplorato le mura perimetrali più volte, palmo a palmo, calpestato ogni mattone del pavimento, ero entrato in ogni galleria che quegli insensati avevano scavato, avevo osservato per ore ed ore quel finto cielo che ci sovrastava, cercando una crepa impercettibile, un minimo segno di cedimento. Inutile.
Ho chiesto ai compagni più anziani, ho letto libri e libri di chi ci ha preceduti qui e ne ho ricavato pensieri, idee, allusioni ad un oltre più o meno sperato, intuito, descritto perfino, con immagini senza senso. Ma nessuna certezza, nessuna mappa che indicasse una via di fuga.
Malgrado ciò non mi sono mai arreso finché tutto quel mio cercare è stato premiato nel modo più inatteso.
Stanco, mi sono appoggiato al grande cancello della prigione e quello, cigolando, si è aperto. Non era mai stato chiuso. Eravamo da sempre liberi e non lo sapevamo.
Accompagnato da un terrore che mi attanagliava la gola, ho fatto i primi passi verso l’esterno. Una luce accecante inondava quello spazio, accecava i miei occhi e impediva di capire se quello spazio avesse anche lui dei confini o fosse infinto.
Qualcosa, più che vedere, si intuiva in quel mare di luce. Qualcosa o forse qualcuno a cui nessun nome era adeguato. Nessuna frase poteva descrivere. Nemmeno le parole qualcosa o qualcuno che ho scioccamente pensato e detto.
Restavo attonito mentre l’iniziale terrore si scioglieva per far posto a una inconcepibile serenità, una composta gioia, un si incondizionato a quella luce, a quella cecità splendente, al mio progressivo sciogliermi in lei.
Un estremo pensiero mi volse ai compagni prigionieri, a un dovere inevitabile di mostrar loro la via di fuga, la luce, la gioia.
Rientrai nella prigione, spinto da quel dovere che aveva assunto la forma di un ordine, e chiusi il portone dietro di me.
Ora sono qui, in cella di isolamento, costretto nella camicia di forza. Non mi hanno creduto, il mio parlare è stato udito come il vaneggiamento di un pazzo e, d’altra parte, non posso dare loro torto: solo la voce di un pazzo può raccontare ciò che supera ogni ragione umana, dire l’indicibile.
Così ho rinunciato al mio inutile dire. Aspetto che si convincano che sono solo un innocuo visionario. Apriranno questa mia cella, scioglieranno i nodi del mio vincolo, tornerò al grande cancello e mi perderò nella luce.
PAOLO BARONI
Il curioso
Molti anni fa, in una città di un mondo lontanissimo, viveva un uomo saggio e colto. Tutti lo conoscevano come “il Curioso” perché era sempre in cerca di qualcosa da scoprire e da capire; non si accontentava di soluzioni o risposte troppo facili alle sue domande: chi siamo, da dove veniamo, dove viviamo, che cosa c’è intorno a noi? Il Curioso aveva l’abitudine di appuntare in un quaderno quello che scopriva durante le sue brevi escursioni. Aveva catalogato animali e piante, disegnato e nominato le costellazioni del cielo formate dai puntini luminosi che comparivano di notte e che tutti indicavano con il nome di “lumi”. Inoltre, il Curioso aveva dato un nome al fiume che attraversava la città ma di cui ignorava la foce e la sorgente. Aveva disegnato i confini del territorio conosciuto, ma siccome nessuno si era mai spinto molto al di là di questi, sulla mappa, oltre tale linea aveva scritto le parole “territorio inesplorato”. Questa situazione di scarsa conoscenza lo rendeva molto infelice. Naturalmente il Curioso aveva cercato numerose volte di organizzare spedizioni per esplorare il mondo, ma nessuno si era mai offerto di accompagnarlo. C’era chi diceva che dopo cento giorni di cammino in ogni direzione non avrebbero trovato nulla, niente da vedere, niente su cui poggiare i piedi. “La terra finisce improvvisamente perché a un certo punto del cammino arriviamo sull’orlo del mondo”, ripetevano.
“Deserto, solo deserto e morte sicura”, dicevano altri, affermando che il sapere tramandato dai padri era l’unica, inconfutabile risorsa di conoscenza. La maggior parte della gente era convinta che cercare di scoprire l’ignoto era sintomo di orgoglio e quindi peccato contro la religione. Il credo religioso in quella città era fondato e tramandato dai libri scritti dai primi uomini, storie rivelate da sedicenti profeti, da eremiti vissuti millenni prima. In quelle sacre pagine si affermava che il mondo era nato dall’idea degli dei immortali e che il Creato era immutabile e inconoscibile.
Un giorno il Curioso, stanco di chiedere aiuto agli altri, decise di assecondare il suo desiderio struggente di conoscenza. Si sarebbe messo in cammino per conto suo. Solo contro la paura, solo contro l’ignoranza. Raccolse provviste sufficienti per trecento giorni, bardò il suo animale da soma più giovane e forte, salutò amici e parenti promettendo che si sarebbe allontanato per studiare la natura e riflettere sulla sua vita in solitudine. Così, una mattina all’alba si volse nella direzione da cui nasceva la Prima Luce e si incamminò lungo le sponde del fiume seguendo la corrente. Quando la luce avrebbe lasciato spazio al buio e nel cielo nero sarebbero spuntate migliaia di piccoli lumi, allora si sarebbe fermato per trascorrere la notte sotto una tenda di sua invenzione. Avrebbe camminato per centocinquanta giorni, questo era il suo piano, dopo di che, se non avesse incontrato niente o nessuno, avrebbe preso la via del ritorno. Le provviste sarebbero state sufficienti, non avrebbe corso nessun pericolo.
Passarono trecento giorni, poi trecentocinquanta, infine trascorso il quattrocentesimo giorno dopo la partenza del Curioso, la sua famiglia cominciò a preoccuparsi seriamente. Il vecchio padre inutilmente chiese agli amici più cari di organizzare una spedizione di soccorso. Nessuno ebbe il coraggio di addentrarsi nell’ignoto. La vecchia madre aveva iniziato i lamenti funebri vestita con il colore bianco del lutto, quando le fu annunciato che suo figlio era stato visto sano e salvo ai confini delle terre conosciute. Oltre un anno dopo da quando era partito, il Curioso fece il suo ingresso trionfale in città.
Durante i festeggiamenti per il suo ritorno, l’esploratore raccontò la sua avventura. Dopo aver camminato per novanta giorni in una terra brulla e desertica, era entrato in un territorio in cui l’erba si faceva sempre più ricca e gli animali avevano corna sempre più lunghe. «Ho raccolto bacche, mi sono cibato di qualche piccolo animale e ho proseguito il cammino lungo il grande fiume fino ad arrivare ad una foresta di alberi altissimi», raccontò il Curioso, circondato dagli sguardi bramosi dei concittadini. Poi aggiunse di aver camminato ancora per sessanta giorni passando attraverso boschi e praterie immense, incontrando solo qualche animale schivo, qualche bestia serpeggiante, grandi animali dallo sguardo acuto e il ruggito potente che fu facile mettere in fuga con i colpi delle sue frombole. Alla fine disse di essere arrivato ad un villaggio di pescatori che si cibavano di enormi pesci catturati nel lago dove si getta il fiume. «Mi hanno detto che il grande lago si chiama Oceano Mare –disse il Curioso– e pensano sia senza fine. Loro parlano una lingua simile alla nostra e già dopo poche ora ci capivamo benissimo. È gente umile e pacifica, sono simili a noi anche nell’aspetto, solo la loro pelle è più scura. Sono rimasto nel loro villaggio qualche giorno e quando sono partito, in cambio del mio quaderno di appunti e del mio asino mi hanno dato un animale molto più veloce che può essere montato. Così, dopo aver imparato a stargli in groppa, sono tornato a “cavallo”, come loro chiamano quel magnifico quadrupede. Ho impiegato solo dieci giorni per tornare a casa dal villaggio di quella gente laboriosa e gentile». Questo disse agli abitanti della città l’esploratore, l’uomo più famoso di tutti i tempi.
Dopo quel viaggio ne seguirono molti altri. Il Curioso divenne presto una leggenda. Fu chiamato l’Iniziatore, colui che segnò per primo il cammino verso la civiltà in quel mondo lontano che nessuno di noi su questa Terra sa dove si trovi, quale sia il sole che lo illumina e in quale spicchiò di universo brilli la sua luce.
LUCIANA RUSSO
Una casa
Tanti anni fa un vecchio amico mi raccontò la fine della vita di suo padre. Mi è sempre rimasta impressa.
Si chiamava Piero e fondamentalmente faceva il contadino. Avevasempre vissuto in un piccolo paesino della Toscana. Il figlio raccontava questa storia con molto orgoglio. Suo padre non era mai stato ricco ma si era fatta una casa comoda negli anni. Se l’era costruita con le sue mani, mattone sopra mattone. Prima una stanza alla quale era seguita la cucina e poi le camere necessarie per i tre figli che aveva avuto. Ogni tanto Guido, il figlio, lo invitava a vivere a Firenze ma lui preferì vivere nella sua casa . Aveva lavorato come operaio ma ora vedovo e in pensione viveva dei prodotti del suo grande orto. Si teneva il necessario e il resto lo vendeva. Mentre raccontava la storia io pensavo che non c’era niente di straordinario in quello che mi stava dicendo.
Un fine settimana il figlio andò a trovare suo padre come del resto faceva spesso. Gli piaceva stare con lui e dormire nella vecchia casa che l’aveva visto bambino. Cenarono insieme col fiasco del vino rosso davanti a cui suo padre, nonostante l’età, non aveva mai rinunciato. A fine cena come d’abitudine si scolò un bicchiere e poi si alzò da tavola e con le due mani unite cominciò a tastare il muro di cucina, poi lentamente passò in camera da letto ripetendola stessa operazione in tutte le stanze. Le sue mani passarono unite su tutti i muri della casa. Ogni tanto si soffermava per dare qualche tocchetto o per avvicinare l’orecchio al muro. Sembrava in attesa. Dopo tanto tempo tornò in cucina dove il figlio divertito ma anche un po’ sconcertato gli chiese cosa stesse facendo. Con calma Piero rispose che stava salutando la sua casa perché non sapeva se l’indomani l’avrebbe potuto fare.
< Ma cosa vai a pensare?> esclamò stizzoso il figlio.< Vai a letto che è meglio>. Il padre sorrise prese la mano del figlio e come sempre la strinse al petto. Girò ancora lo sguardo intorno, come fa uno che lasciando una casa si vuole imprimere bene nella testa gli spazi occupati fino ad allora. La mattina dopo se n’era andato . Guido raccontava sempre con incredulità e gioia la dipartita di suo padre. Ripeto quando la sentii la prima volta non mi parve una grande storia anzi mi sembrò quasi inventata ma il gesto finale del padre mi ritornava alla mente di tanto in tanto e più ci pensavo e più mi appariva chiaro il significato . Certo era un gesto di commiato dalla casa, dai muri che aveva creato ma toccarli significava anche salutare la propria vita. In realtà apriva una porta visibile solo a lui. Il gesto portava in sé qualcosa di compiuto, di adempiuto e lui avendone consapevolezza serenamente se ne andava. Dopo quello non c’era veramente nient’altro da fare o da dire .
Penso che la nostra società non è più quella di Piero e il vivere è più affannoso, problematico e non in equilibrio. Le nostre gabbienon sono muri o mattoni ma sono prigioni o categorie mentali che ci creiamo con lo scorrere del tempo. Riflettendo sulla storia mi piacerebbe avere il tempo di salutare tutti con amore e serenità e anche le gabbie o i fantasmi che mi sono costruita nel tempo. Certe cose fatte o dette pensando che la realtà era proprio come mi si presentava salvo accorgermi poco tempo dopo che erano steccati che mi ero abilmente costruita per facilitarmi la vita. Sono sicura che saluterei in maniera liberatoria soprattutto quella gabbia che non mi fa essere come vorrei. Vedendo la porta aprirsi proverei della gioia come del resto descrive benissimo in un suo libro la scrittrice Yourcenar. Lei descriveva la fine della vita come una porta che finalmente si apriva su un sentiero di conoscenza e libertà. Ognuno ha la sua interpretazione ma nel gesto del vecchiocontadino che salutava la sua casa vedo un gigante che vede la nuova strada davanti a sè e per questo sorride e saluta.
SIMONETTA MANASIA
IL TESTAMENTO DELLA NONNA
Francesca ormai maggiorenne andava tutti i giorni, con la madre a trovare il nonno. La morte di Elide aveva creato un vuoto enorme nella famiglia perché era una donna eccezionale.
Aveva trascorso molto tempo nell’infanzia con lei, si sa quando i genitori lavorano, entrambi, i figli vengono affidati ai nonni, le aveva raccontato tanti aneddoti della sua gioventù e come nelle favole i suoi racconti finivano sempre con una morale, insegnandole tante e tante cose della vita.
Quel giorno di novembre il nonno riunì figli e nipoti per leggerli una lettera di Elide che aveva trovato nascosta in un cassetto.
La mano tremante aprì la busta e cominciò a leggere:
Io Elide Poli nel pieno possesso delle mie facoltà lascio ai miei posteri, come diceva un poeta, nessun valore materiale ma valori più importanti per vivere una vita serena, apprezzando tutti gli aspetti negativi e positivi che ognuno di Voi potrebbe incontrare durante il breve cammino sulla terra.
A mia figlia Carla, la più fragile, desidererei darle la forza di reagir equando crede che il mondo le si rivolti contro. Non deve rinchiudersi nel mutismo senza che nessuno capisca cosa l’ha offesa o dato noia nel rapportarsi con gli altri.
Affrontare la realtà e chiarire subito la situazione anche con i suoi figli così lei vivrebbe molto più serena..Senza comunicazione non può pretendere comprensione.
Ho cercato sempre di aprire la sua anima, non ci sono riuscita, non ho trovato mai la chiave giusta. Spero che il mio dono la aiuterà a vivere meglio. La famiglia è il luogo giusto per liberarsi dalle angosce, dalle paure perché se regna l’amore, tutto diventa più leggero e risolvibile. L’unione fa la forza.
A mia nipote che è già bravissima ragazza, le suggerisco di coltivare quello che già possiede: il grande rispetto per gli altri, la buona educazione, la semplicità e la disponibilità ad aiutare il prossimo quando ne ha veramente bisogno.
Il nonno continua a leggere e ognuno di noi è colpito da come la nonna avesse saputo indicare la giusta strada, Elide avrebbe dovuto fare la psicologa
Quel testamento indica, dove trovare un’altra lettera, dove lei, prima
di chiudere definitivamente gli occhi desidera che tutti noi sappiamo di un suo intimo segreto.
Il nonno riapre la busta e legge:
Sono stata adottata da bambina avevo quattro anni, non mi è mancato nulla e sono stata felice sino all’adolescenza. Improvvisamente il desiderio di conoscere la mia vera madre. Volevo sapere il motivo del mio abbandono per dare risposte alla mia inquietudine. La ricerca risultò vana e i primi anni di università, mi dedicai all’alcool.
Scendevo sempre più in basso, non riuscivo a studiare, volevo solo divertirmi per dimenticare.
Una sera del tutto ubriaca, all’uscita della discoteca fui violentata da un ragazzo che avevo conosciuto poco prima. Non ho mai denunciato il fatto se pur la ferita fosse profonda, la rabbia, mi risvegliò da quel torpore con una forza inimmaginabile.
Mi sono laureata, ho incontrato l’amore della mia vita, il Vostro amatissimo nonno, al quale confessai tutto il mio vissuto precedente.
Ora lo sapete anche voi e scrivere queste righe mi ha reso una persona libera, sono uscita da quella prigione dopo diversi anni ma siete stati voi la forza per uscirne.
Un abbraccio forte a tutti e un grosso bacio al nonno, una grande persona che ha aperto quella gabbia in cui mi ero rifugiata.
La vostra cara nonna
ANITA MATTEELLI
La testa imprigionata.
La sua vita non era stata poi così male fino a quel momento, lavoro, cura dei figli e della casa, qualche film, il sabato cene con amici sempre a casa sua, seguita da giochi tavolo, prevalentemente carte, risate e piacevoli momenti.
Abbonamento alle stagioni teatrali e concerti. Feste e ferie quasi sempre all’Isola d’Elba dove avevano una casa, insomma un tram tram quotidiano non proprio da disprezzare, ma di certo senza sorprese ed emozioni nuove.
Tuttavia, ad un certo punto Angela, questo è il suo nome, specialmente quando i bambini cominciavano ad essere più autonomi, aveva un po’ più di respiro e, dopo una maratona di circa otto anni, scordandosi completamente di se, si rese conto che le mancava qualcosa ancora per sentirsi del tutto appagata.
Qualcosa che la portasse fuori dalla routine quotidiana per qualche ora.
Il fatto che lavorasse non era affatto digerito specialmente dagli anziani compresa suocera. La loro mentalità prevedeva che la moglie e la mamma si dedicasse esclusivamente a quei ruoli, già, lei lavorando, se lo sentiva ripetere spesso che lavoro e famiglia non potevano conciliarsi, che non si lamentasse di stanchezza e di corse.
Non si sentiva infelice, questo no, ma cominciò a rendersi conto della limitatezza del suo “essere” e del suo “fare” non le piacque!
Le sue riflessioni di quanto le mancasse ancora per sentirsi più appagata, iniziarono principalmente nell’ascoltare le mille cose che facevano per se stesse le sue colleghe con e senza figli. Il lavoro, la socialità che viene vissuta, apre la mente, ti fa confrontare e, conseguentemente imparare a guardare la propria vita in profondità. Giorno dopo giorno le sue riflessioni si intensificarono, si allertò, ebbe paura che prima o poi la noia o la scontentezza avrebbe miniato la serenità sua e familiare, rifletté meticolosamente, concentrandosi per trovare il modo per uscire da quella gabbia in cui la sua testa si era intrappolata, avvertiva dentro di se una forza potente che la spingeva a superare quell’ingabbiamento a tutti i costi.
Giorno dopo giorno, la consapevolezza di se si acuiva e capì che non voleva più stare in quegli spazi stretti e limitati, c’era un mondo che l’aspettava pieno di tante cose da fare, da conoscere, la casa, il lavoro, i figli, non avrebbero risentito dei suoi ulteriori impegni, oltre a tutto, finalmente anche il marito doveva dare il suo contributo.
Insomma smaniò parecchio nel sentirsi prigioniera di se stessa e anche degli altri che, egoisticamente accettavano di buon grado il caro robottino di moglie e mamma, a disposizione di tutti all’infuori di se stessa.
Contrariamente a quanto le avevano sempre detto sulle donne che lavorano, capì che proprio la donna che lavora cresce, e al fine convenne e si convinse, non senza, combattimenti interiori, elucubrazioni estenuanti, che con una giusta organizzazione, volontà, collaborazione del marito, avrebbe potuto prendersi qualche spazio per dedicarsi anche a ciò che le interessava, e sentiva, sinceramente che era anche un dovere emanciparsi, fare qualcosa solo per se stessa, cosa che l’avrebbe resa più felice ed era certa che, ne avrebbero beneficiato anche tutti i suoi cari con mamma e moglie più appagata, conscia che qualsiasi cosa avrebbe fatto andava ad aumentare il carico dei suoi impegni giornalieri, ma non le importava.
Insieme al marito, che aveva una vita ben più vivace, fecero lunghe chiacchierate, non sempre pacate, per analizzare i carichi dell’uno e dell’altro e dividerli equamente, lei si incolpò di averlo viziato troppo di avergli lasciato parecchio spazio, per lo sport, politica, sindacato ecc. ora dovevano prendere atto che il suo sbaglio era da lasciarlo indietro ed iniziare con un’altra musica. Tutto questo portò un po’ di scompiglio e tensione, ma Angela oramai era determinata superò tutto riuscendo a calmare le acque appellandosi al senso di giustizia e all’amore che li univa.
Il nuovo ménage iniziò, con sua grande soddisfazione, era stata brava ad usare tutta la diplomazia di cui era capace.
L’occasione per uscire dalla prigione che si era creata non tardò a presentarsi.
Un collega, attore scrittore di commedie, una mattina attaccò nella bacheca del bar dentro all’istituto presso il quale lavoravano, una locandina. Incuriosita, mentre stava consumando la colazione, si avvicinò per leggere di cosa si trattava.
Fu per lei un’illuminazione, riguardava un corso di teatro, che di li a poco avrebbe avuto inizio,
Ecco in quale modo avrebbe iniziato la sua “emancipazione” con quel corso di teatro che tanto amava.
Non tardò a prendere tutti i chiarimenti per conoscere come si sarebbero svolte le lezioni, sopratutto quale sarebbe stato l’orario del corso.
Le risposte furono soddisfacenti perché le permettevano di poterlo farlo perché gli orari erano perfetti, per assolvere anche la messa a nanna dei bimbi prima di uscire, poiché sempre dopo cena..
La sua determinazione vinse e, con una grinta che ancora non sapeva di avere, eccitata, emozionata come un bambino che scarta un regalo, si scrisse al corso immediatamente il giorno dopo, fu la prima!
Appena arrivata a casa, senza aspettarsi grandi applausi, mise al corrente i suoi cari della novità, i quali, facce sorprese, si limitarono ad ascoltare la notizia senza battere ciglia poiché la videro così determinata, grintosa e felice, che si sentirono di non spegnere il suo entusiasmo, anzi recitarono, forse, una felicità pure loro, che manifestarono con un applauso e un rumoroso cin cin.. Angela aveva deciso che nessuno poteva farle fare marcia indietro, si rendeva conto che non voleva e non poteva per nessuna ragione rinunciarci, sarebbe stata un’eterna imbronciata, così ne parlò senza lasciare spazi a dubbi e ripensamenti, contenti o scontenti che fossero.
Quando il corso iniziò quelle ore erano diventate il suo giro felice intorno alla sua “prigione” anche se una prigione comunque piena d’amore. Forse, anzi di sicuro, qualcuno insensato, avrà pensato che il comportamento di Angela fosse da ritenere scandaloso, ma la protagonista di questa breve storia, era sempre più convinta che la sua scelta, fosse giusta, capì sempre più che amarsi un po’ fa bene allo spirito e a chi le è intorno.
Da quel giorno in poi, ebbe altre occasioni importanti per nutrire se stessa di altro oltre la famiglia ed il lavoro e, sempre, tutto ciò a cui si dedicava, la impegnava nelle ore del dopo cena perché mai avrebbe trascurato, per il suo benessere, ciò che aveva voluto con tutta se stessa, i suoi figli, la famiglia.
E’ giustissimo che la donna con famiglia, che lavora , abbia anche i suoi spazi, senza però, trascurare ciò che ai figli è dovuto principalmente, la presenza e le attenzioni, indispensabili per una sana crescita. Tutto si può fare, con determinazione si, ma anche con accortezza, mai fare infelici chi ami per la propria felicità, parlare, parlare, chiarire, organizzarsi, si trova sempre la via d’uscita, l’accordo.
La sera era diventata per lei quelle ore d’aria che hanno i veri carcerati, quando i doveri principali erano stati assolti.
SOLLECITAZIONE: Chi sarà così insensato da non fare, prima di morire, almeno un giro della propria prigione.