Gruppo scrittura Scarabeus 2019-2020

Sesto incontro

ARTURO FALASCHI

La ginestra.

Tornerà il vento e tornerà il fuoco. Di nuovo la landa deserta di nera lava impietrita si colorerà di rosso e un soffio furioso porterà ancora “la crudel possanza del sotterraneo foco” a cui ogni vita soccomberà.

Ai margini del deserto, la vita vegeta di nuovo e cresce; lo sguardo verso il mare lontano; il “formidabil monte sterminator Vesevo” ignorato, quasi un’assenza, un  ricordo svanito, nemmeno il pennacchio di fumo a decorare il panorama.

Raffiche di vento caldo scendono dal monte e fanno vibrare il terreno indurito; scosse sismiche scrollano città e fanno cadere case e  progetti. Avanguardie di un esercito accampato oltre le fragili mura, più che difesa, schermo di opaca ignoranza.

Così ” … vigliaccamente il tergo rivolgesti al lume che il fe’ palese” perchè “ti spiacque il vero dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ti die'”.

L’albero, la casa, le orgogliose e mirabili opere dell’uomo stanno di fronte, nella folle idea di essere risparmiate, di lottare e sopravvivere alla furia del vento e del fuoco, alla comune sorte del vivere e del morire. Fingendo che quella furia non sia così potente e così invincibile. Fingendo che il deserto di lava nera non sia lì a testimone, a monito.

Solo la ginestra, questa fragile canna, osa affrontare il deserto e il destino di morte che le fu assegnato. Non come sfida ma come rassegnazione e accettazione. La ginestra sa della propria impotenza, della sua inevitabile esposizione al fuoco, al vento caldo che la distruggerà.
“Le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te fatte immortali”.

Intanto, la sua stessa conoscenza del vero la solleva sopra il deserto. Perché “nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontro al comun fato, e  che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte”.

Ed ecco, anche nella consapevolezza della comune fragilità e nella precarietà del suo e nostro stato, ” … i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola …”

La ginestra che osserva il deserto sa che non è l’uomo, l’altro uomo, il responsabile di tanta rovina e “non l’uomo incolpando del suo dolor”, a lui si sente sorella, accomunata dallo stesso inesorabile fato “… ma dà la colpa a quella che veramente è rea, che de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna”.

Questa è la vera nemica, colei che ci dette la vita in questo luogo abbandonato dove, se un fiore cresce e spande profumo e bellezza, lo fa solo in paziente e consapevole attesa che un alito rovente e un torrente di fuoco spazzino via ogni cosciente esistenza.

La speranza è illusione. Pensare di contrastare il fuoco a viso aperto o di blandirlo con vile preghiera è follia. Al destino di morte non è dato sottrarsi.

Anche se l’illusione è l’unico farmaco che Natura ci concesse quando “le frali tue stirpi … credesti o dal fato o da te fatte immortali”.

La ginestra sa che ogni uomo è sottoposto allo stesso inevitabile destino, sa che la indegnità di tale destino lo accomuna in una compassione e in un amore reciproci.

Cosi “… tutti fra sè confederati estima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valido e pronto ed aspettando aiuto negli alterni perigli della guerra comune”.

Vane quindi e stolte sono le lotte dell’uomo contro l’altro uomo come se, in una città assediata, si guerreggiasse tra gli assediati stessi all’interno delle mura amiche.

O forse, chissà, quel profumo che consola il deserto, il canto che ne descrive l’orrore, rimarrà in una qualche rarefatta eternità quando le morbide fronde della ginestra piegheranno docili il capo al fuoco sterminatore.


Nadia Paolacci

Un gruppo di giovani e ragazze se ne stavano tranquilli e aspettavano che il tempo trascorresse, beatamente sdraiati sul greto del fiume.
Si lasciavano vincere dalla monotonia, scandita dal leggero frusciare che faceva il fiume mentre scorreva verso il mare.
Una leggera musica di un mangianastri si diffondeva nell’aria tranquilla e tersa della mattinata domenicale. Dietro di loro un gruppo di canne oscillava spinto dalle leggere folate del vento caldo.
Steso sul ventre Fabio le guardava ondeggiare, portato lontano nei ricordi di quando era innamorato di Luisa, una sua coetanea, che delicatamente corteggiava.
Non era coraggioso per dirle quanto sentiva per lei, ma cercava di parlarle senza aprire bocca, con piccole gentilezze, sorrisi appena accennati, sguardi pieni di tenerezza. In questi momenti, le idee Luisa ondeggiavano come quelle canne, che resistevano alla spinta del vento, che le faceva piegare fin quasi sulla sabbia.
A volte gradiva con un sorriso, a volte sembrava nemmeno accorgersi della delicatezza di questo corteggiamento.
Aveva gli occhi solo per un bel ragazzo, palestrato, ma privo di altre attrattive. Se lo ricordava bene Fabio, quando osservava le occhiate di auto-compiacimento che il bell’imbusto rivolgeva alla “sua” Luisa. Mentre con la mano raccoglieva una manciata di sabbia, le canne davanti a lui continuavano ad ondeggiare, ma il verde delle foglie scompariva sostituito da alcune chiazze di giallo. Forse era l’inizio della fine di quelle canne.
Poi un giorno, in piscina, Fabio si fece coraggio e tutto d’un fiato aprì il suo cuore a Luisa , le disse tutto quello che sentiva per lei, i suoi sogni per un futuro insieme . La risposta fu una sorpresa: «Sei un bravo ragazzo, che farebbe la felicità di molte mie amiche, ma per te non provo altro che amicizia. Sono innamorata di quel ragazzo che vedi sul trampolino» Non gli rimase altro che accettare quella decisione. Il rumore delle canne si faceva sempre più intenso, perché il vento era aumentato.
Le foglie erano sbattute con violenza e i fusti, prima quasi diritti, ora erano piegati fin quasi a spezzarsi, ma resistevano a ogni folata I ricordi di Fabio, si fecero più nitidi. Piano piano quello che sentiva per Luisa si era affievolito e nacque in lui un nuovo sentimento, quello verso una ragazza timida che stava quasi sempre da sola. La loro amicizia, fu una cosa normale, si ammiravano a vicenda anche a distanza. Le belle canne verdi erano sempre più gialle e il vento che prima le faceva divertire ondeggiando stava consumando la loro vita.
Prima era il loro alleato di giochi, adesso era un nemico che seccava il terreno con il quale si nutrivano. Ben presto avrebbero dovuto arrendersi alla volontà del vento. Il caldo soffocante, si sentiva meno nella piscina, le giornate erano diventate meno afose.
Un giorno Luisa, si era avvicinata a Fabio, e con un sorriso lo aveva salutato. Gli aveva detto che si ricordava di quando la corteggiava e che stupidamente aveva sbagliato a innamorarsi di quell’altro, che adesso era sparito, e con lui avrebbe ripreso volentieri quella storia mai iniziata. Si era seduta vicino a lui, come per fargli sentire il profumo della sua pelle e in un qualche modo sedurlo.
Ma il tempo in cui Fabio era innamorato era passato e adesso non aveva più interesse per lei.
L’amore era diventato un sentimento inutile, il suo cuore si era inaridito e ogni emozione era morta nei suoi confronti. Inutile che Luisa ondeggiasse come una canna al vento! Inutile che lei continuasse a parlare e a muoversi con eleganza per apparire forte di fronte alla sua sconfitta. Il suo destino era impietoso. Era troppo tardi, era come una canna, che si era opposta alle adulazioni di Fabio, poi si era piegata alle lusinghe di quel bel ragazzo e poi si era seccata dal sole, la bellezza appassita, svanita nell’aria. Sul greto del fiume il sole iniziava a tramontare, il vento era diminuito di intensità, aveva finito la sua opera. Le canne erano state sconfitte, non avevano più le belle foglie verdi, non si piegavano già da un po’ di tempo alle spinte del vento.
Erano secche e per loro il destino era segnato.


Paolo Baroni

La canna e il vento

Era una giornata di vento forte e faceva freddo. Nella grande cucina i sei nipoti attendevano che Nonna Paola terminasse di rigovernare i piatti della cena per ascoltare come ogni sera una nuova novella.
Quella volta fu Giacomino primo a fare la richiesta: «Nonna, ci racconti qualcosa di speciale, che ci faccia s dimenticare questa brutta giornata d’inverno?»
La nonna aveva appena terminato la rigovernatura, così appoggiò l’asciughino sul gancetto accanto al lavello e si sedette sulla sua sedia a dondolo davanti al focolare. Con un cenno delle braccia, invitò subito i sei bambini a sedersi intorno a lei e cominciò.

Sentite questo vento che soffia forte contro le imposte? Dovete sapere che il vento…

«Perché soffia il vento, nonnina? Da dove viene? E dove va?», chiese Pina, una delle due gemelle.
«Non la interrompere», la rimbrottò Maria.
«La curiosità è una cosa buona, Maria. Beh, il vento è aria che si sposta da un luogo a un altro. Non lo vediamo perché l’aria è invisibile ma sapreste dirmi da che cosa ci accorgiamo che c’è vento?»
«Dal rumore», disse pronto Costanzo, il gemello maschio di Maria.
«Certo, il vento ha più di una voce: può fischiare, sibilare, ululare, quando è molto forte. Ma a parte il suono, come si fa a vedere quando è arrivato il vento?», chiese la nonna.
«Le cose si muovono», rispose Lia.
«Esatto. E che cosa si può vedere muoversi al vento?»
«Le foglie», rispose di nuovo Lia con la gioia negli occhi.
«Anche i rami», puntualizzò Pina che aveva l’abitudine di precisare sempre ciò che la gemella diceva.
«E le bandiere, fece Giacomino.
«Ok, gli alberi, le bandiere… che altro?
«Le nuvole, disse ancora Giacomino alzando il braccio come faceva sempre a scuola.
«Ma io volevo sapere perché l’aria si sposta», precisò Pina che aveva per prima sollevato la questione.
«Hai ragione. Cercherò di spiegarlo in modo semplice», disse Nonna Paola che cominciava a sentirsi sotto interrogazione. «Voi sapete che vicino al mare fa più caldo che sui monti, in genere, lontano dall’acqua fa più freddo di notte e più caldo di giorno». Tutti i bambini annuirono. 
«Questo particolare fa in modo che sul nostro pianeta ci siano masse d’aria più calde e masse d’aria più fredde. L’aria calda è più leggera e sale in alto e questo spostamento crea un vuoto che subito viene riempito dall’aria più fredda che spostandosi provoca il vento.
«Ma perché l’aria calda è più leggera?», chiese Pina che difficilmente si accontentava di una risposta troppo semplice.
«Basta!», fecero in coro gli altri cinque.
«Nonna per favore continua la novella…», implorò Luigino.

Certo. Dovete sapere che il vento si diverte molto a far muovere le cose. Se la ride, si fa per dire, quando vede i rami che cadono a terra, le nuvole che si sfilacciano lassù nel cielo fino a somigliare a batuffoli di cotone lunghi e sottili. Insomma il vento, quando e una brezza è un monello impertinente, ma quando è forte può comportarsi da vero prepotente. Un giorno in cui c’era un vigoroso libeccio che veniva dal mare, una canna di palude, una pianta lunga e sottile con tante foglie verdi lunghe come lance e con un folto ciuffo biondo sulla cima, si stava divertendo a muoversi a destra e a sinistra, in avanti e indietro, spinta dalle folate irriverenti del vento. Voi sapete che le canne sono molto elastiche e resistenti. Si piegano fino a toccare quasi terra ma non si spezzano. Così, quella specie di giunco decise di prendersi gioco del Libeccio che quel giorno, così aveva riportato la televisione, aveva toccato i 100 km all’ora. Era successo di tutto in città e in campagna: tegole cadute dai tetti, alberi sradicati, rami spezzati, antenne televisive lasciate a penzolare a testa in giù sulle facciate delle case, pali della luce piegati. Insomma danni molto seri.

La nostra amica vegetale però era felice e allegra. «È tutto inutile che ti sforzi tanto, caro il mio Libeccio marino, –disse la canna al vento– tanto lo sai che io non mi spezzo. Riposati. Anzi datti una calmata e torna al di là del mare. Qui non è aria per te». Poi, soddisfatta della battuta, si mise a ridere scuotendo il suo ciuffo giallo tutto scarruffato dalle folate intrise di salmastro.
«Lo so che non ti spezzi, cara la mia cannuccia, –rispose il Libeccio marino con un potente soffio sibilante– io sradico alberi vigorosi, sconquasso tetti e sbriciolo comignoli decorati, frantumo valorose persiane di ogni colore, tronco lampioni forti come l’acciaio, ma tu… bè a me basta che tu… ti genufletta quando passo, i tuoi inchini sono segno di rispetto e di sottomissione alla mia forza».
«Sottomissione? –sghignazzò la pianta– Ma che dici! Io mi piego quando passi e mi rialzo quando te ne vai. Questa capacità si chiama “resilienza”, caro mio, e vedendo la tua faccia stranita penso che tu non sappia nemmeno che cosa sia».

Faccia? Ma il vento ha una faccia?», chiese meravigliato Giacomino, seguito subito dopo da Maria che chiese che faccia avesse il vento.
«Una faccia arrabbiata e paffuta! Con due guanciotte gonfie e i capelli tutti arruffati», rispose la nonna.

Ma continuiamo.
«Resi-cosa?», balbettò il vento.
«Re-si-lien-za –sillabò la canna con orgoglio– è la capacità di affrontare senza danni eventi violenti».
«E tu come… l’hai scoperto?» chiese il vento che nel frattempo aveva leggermente diminuito la forza delle raffiche per ascoltare il ragionamento della canna.
«Me lo ha detto il Gufo saggio un giorno che mi ha visto avvilita guardare l’acqua immobile dello stagno, lamentandomi con me stessa della monotonia della mia vita. “Tu sei la migliore di tutti –mi disse e aggiunse– Grazie alla tua corporatura esile ed elastica sarai sempre capace di fronteggiare gli eventi negativi, vincendo qualsiasi sfida; ti sai adattare prendendo posizioni non di resistenza ma di resilienza. Sei una sfidante nata e vincerai sempre”. Quel saggio animale con poche parole mi aveva reso sicura di me e finalmente felice».
Il vento decise lì su due piedi di lasciare la città e la campagna e di tornarsene verso il mare a giocare con i gabbiani, con gli schizzi di acqua e di luce e a gonfiare le vele. Tornò là dove nessuno avrebbe riso di lui o messo in discussione la sua forza. FINE.

«Finisce così?» chiesero i sei nipotini in coro.
Certo e come ogni novella che si rispetti anche questa ha una morale. “Non sempre si vince con la forza e la sopraffazione. Quando i prepotenti incontrano qualcuno che sa reggere la sfida non opponendosi testardamente ma con l’adeguamento, la loro forza perde ogni potere. Sapersi adattare senza sottomettersi è una forma di intelligenza, bambini miei. Ed ora tutti a letto, vedrete che domani il vento sarà tornato da dove è venuto.


Luciana Russo

FUOCO

È giovedì e puntuale mi arriva la telefonata di Giuliano.
“Voglio camminare ma un po’ in salita. Che ne dici se andiamo sulla Verruca?”
Rimango un po’ dubbiosa perché il bosco è tutto nero e arso per l’incendio doloso avvenuto due anni fa. Alle mie rimostranze risponde che è curioso di vedere cosa è rimasto. Cedo perché è uno dei pochi che ancora camminano nella cerchia dei miei amici. In quaranta minuti arriviamo a Montemagno, sopra Calci, un paesino piccolo ma molto carino. Nelle vie del paese alcune persone ci salutano con meraviglia che fa subito spazio alla contentezza. I nostri zaini e bacchette dicono che siamo camminatori ed i valligiani non ne vedono più tanti.
La strada parte subito in salita abbellita dal verde degli olivi e dalle acque che qui scorrono rigogliose. Dopo mezz’ora di cammino sostenuto arriviamo all’inizio del bosco. Il sentiero che prima dell’incendio si snodava fra pini e corbezzoli ora è nudo. Gli alberi tagliati fanno intravedere uno panorama bellissimo. Tutta la piana di Pisa è illuminata da un bel sole e in lontananza scorgiamo il biancore di Piazza dei Miracoli. Bello, penso, ma io preferivo gli alberi.

“Non capisco perché siamo dovuti venire qui a vedere questa desolazione” attacco guardando storto il mio compagno il quale è tutto preso dalla sua macchina fotografica e non mi risponde nemmeno. Non mi resta che affrettare il passo per arrivare in vetta il prima possibile. Ci inoltriamo sempre più e ora gli alberi non sono più tagliati. La forestale li ha lasciati e i fusti neri senza chioma fanno passare un bel venticello. Ad una curva inaspettatamente vedo svettare un cespuglio di foglie verdi che fanno contrasto con i fiori bianchi a campanella di cui è fornito.

“Ma è un corbezzolo. Ma guarda come sta venendo su bene” esclamo. Giuliano soddisfatto mi risponde che il corbezzolo è la prima pianta a riprendere dopo un incendio. Deve essere vero perché ora ne vedo tanti ai lati del sentiero ma anche fra i poveri alberi rimasti. Scrutando bene dove mettiamo i piedi scorgiamo anche tanti pinotti alti quanto il palmo di una mano. Il loro verde ci dice che sono appena nati e che si stanno riprendendo il loro territorio.

Non sono più arrabbiata e ora procedo stando attenta ai segnali nuovi della natura che emergono da quella catastrofe. La vera sorpresa ci aspetta sul crinale che separa Montemagno da Vico Pisano. Il sole gioca con una macchia verde smeraldo lucente. È il nuovo muschio appena rinato. E tante chiazze, guardando bene, si allargano nel nero dei rovi e del legno. Ci fermiamo a osservare e a parlare del rogo, avvenuto ormai due anni fa, che annientò tutta quella parte di vegetazione fino ad arrivare alla metà del monte Serra. Per giorni il fuoco aiutato dalla siccità e dal vento si mangiò ettari e ettari di vegetazione.  Alcune zone rimasero completamente rase al suolo. Come al solito la stupidità dell’uomo aveva messo in ginocchio un piccolo paradiso, meta di tante escursioni di camminatori e ciclisti. Il bosco ferito a morte, però, ora brulicava di nuova vita, forse con più vigore di prima. La natura prendeva di nuovo il sopravvento. Sotto quegli alberi neri, bruciati, nascevano nuova erba, piante, fiori e forse se ci si metteva in ascolto si poteva anche sentire il bisbiglio lieve del nuovo che avanzava piano, senza farsi né sentire né vedere. Mi piaceva pensare che il bosco inconsciamente si stesse proteggendo dall’uomo.
Siamo arrivati al vecchio rudere della Verruca e lì ci siamo fermati per godere il calore del sole e mangiare la frutta che avevamo portato. Eravamo contenti perché malgrado tutto avevamo fatto una bellissima escursione con un vecchio amico un po’ malconcio ma sapevamo che in pochi anni sarebbe stato in grado di riparare ancora gli escursionisti con la sua ombra


Anita Matteelli

IL VENTO DELLA VITA

           La vita è come il mare, incontra ogni tipo di vento.

         Quanto è piacevole quel venticello che passa accarezzandoti, come mano invisibile, magari proprio quella che tu vorresti che fosse, l’accogli chiudendo gli occhi e ascoltando il sussurro dell’anima e percependo profumi atavici, pieni di ricordi.

         E sono immensi venticelli gli abbracci di affetto dei figli,

         E sono brezze fresche e felici le nascite dei nipotini che portano grandi emozioni e  che ci fanno intravvedere il futuro e, il venticello che spira  con l’amore che non accarezza solamente, ma scatena brividi di immenso piacere e ci sono anche  gli importanti venticelli che ci regalano le vere amicizie e tanti tanti altri  ancora ad addolcire la vita, come quelli che rinfrescano durante la calura estiva.

         Ma il vento è capriccioso, originale, ha bisogno di sferzate d’autore, la staticità lo sgomenta, un po’ come gli uomini inquieti, quelli che amano l’avventura, le scoperte, compreso quelle  che li riguarda, così, improvvisamente da venticello, può passare  a vento di libeccio,  molto violento, a vento di  tramonta, spesso gelido e pungente come tanti  spilli sulla pelle, niente affatto piacevole, il vento che porta uragani e tanti disastri paurosi, implacabili.

         Così come il vento, anche nella vita, senza alcun cenno di avviso, tutto può cambiare, in pochi attimi,   capitano avvenimenti così dolorosi  che sconquassano il cuore come gli uragani la terra. 

         Quando accadono sono lotte titaniche contro la furia che ci troviamo ad affrontare, ma siamo qui per viverla la vita, la nostra unica vita che abbiamo in questo mondo, siamo qui di passaggio e non ne conosciamo i limiti, quindi, accada quel che accada, la si deve vivere con tutto l’amore che possiamo.

         Le sferzate del vento piegano le canne, ma non si spezzano, esemplare la loro tenacia, in certe situazioni di dolore e smarrimento è bene reagire restando saldamente in piedi, resistere, anche traballanti, con il cuore a pezzi, tenere duro e guardare avanti, tutto passa, il bello e il brutto, passa il vento di burrasca della vita, basta non lasciarsi spezzare imitando le canne, ci saranno nuove brezze a deliziare l’anima e a calmare il cuore.


Simonetta Manasia

La forza di reagire

        Ero sull’autobus n. 11 ritornavo a casa dopo una bella giornata trascorsa con i miei nipoti.
Alla fermata successiva sale un signore, lì per lì non ci faccio caso, ma dopo essersi girato verso di me riconosco un’ espressione che per anni mi aveva tormentato.
Il suo labbro superiore si alzava verso la narice destra provocando una smorfia che io definisco e definii allora di cattiveria verso gli altri.
Indossava dei vestiti un pò trasandato e gli occhi esprimevano una celata tristezza.
Il mio stomaco sobbalzò rivedendolo dopo tanti anni, purtroppo ricordavo perfettamente tutto quello che mi aveva fatto passare durante l’adolescenza.
La prossima fermata sarebbe stata la mia, mi alzai, lo guardai fissandolo insistentemente scesi con noncuranza ma il piede gridò vendetta e lo pestai  con forza.
Mi scusai ma lui come il solito inveì contro di me senza accettare il mio  dispiacere  anche se nascosto da una grande soddisfazione interna.
 Avevo solo quindici anni, non ero bella, vestita anche démodé, mia madre, mi aveva avuto in tarda età e non seguiva i gusti dell’epoca.
Mi pettinava formando una grossa treccia raggomitolata alla nuca, gli occhiali e qualche chiletto in più, insomma la sfigata di turno al liceo che tutti si permettevano di prendere in giro.
Lui poco più grande di uno o due anni frequentava la seconda A, aula accanto alla mia.
Non riesco a tutt’oggi a descrivere le sofferenze subite durante l’intervallo, derisa e urlando frasi come: Ma chi è quella bruttona non si può guardare etc, etc…
 Non ho mai pianto davanti ai compagni di scuola mi dimostrava forte non curante dei loro comportamenti.
Arrivata a casa fiumi di lacrime inondavano il mio cuscino.

      Un giorno mi accorsi di un altro sfigato come me, un ragazzo timidissimo ma molto bravo, aveva tutti dieci e naturalmente ciò provocava invidia diventando bersaglio degli altri, proprio come me.
Il bullismo dei nostri coetanei era quotidiano.
Decisi di conquistarlo per combattere insieme quello che subivamo.
Diventammo sempre più forti senza dare nessuna soddisfazione a quei nemici così li consideravo invece di alunni che frequentavano la mia stessa scuola.
Le loro parole i loro atteggiamenti non ci scalfivano e loro diventavano ogni giorno più arrabbiati.

      Passarono alcuni mesi e m’innamorai, lui era dolce con me e mi suggerì con delicatezza di cambiare il mio look.
Correre due ore al giorno per dimagrire, mettere le lenti a contatto, cambiare pettinatura insomma il brutto anatroccolo divenne ben presto un bel cigno.

       Fu agli esami di maturità che furi della scuola lui alzando il labbro superiore vero la narice mi disse: ma lo sai che non sei niente male, vuoi metterti con me? A quella domanda seguì la mia risata sarcastica , girai le spalle e me ne andai con un sorrisetto malizioso.
Carlo il timido mi raggiunse mi baciò e avemmo la  nostra rivincita.

     Capii che nella vita bisogna non inchinarsi, né piegarsi a chi cerca di distruggerti sia fisicamente sia moralmente.

     Il tempo mi ha dato ragione sono una donna serena che ha raggiunto con testardaggine tutti gli  obiettivi  che si era prefissata.
Ho sposato Carlo abbiamo affrontato le difficoltà con la nostra forza di carattere.
Penso che quel bel ragazzo dell’aula accanto sia rimasto un perdente e forse anche infelice ma oggi lo perdono, ha sprecato il suo tempo con me, e mi ha fatto diventare quella che sono oggi forte e determinata.


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