Gruppo scrittura Scarabeus 2019-2020
Quinto incontro
ARTURO FALASCHI
Turno di Natale.
Turno del pomeriggio e addio al pranzo in famiglia e al regalo sotto l’albero. Due tortellini buttati giù in fretta e furia, poi qui, davanti agli schermi, a fare niente.
Yury, lunga esperienza la sua, ormai da tempo rassegnato; Kevin, alle prime armi, triste e arrabbiato nero.
“Che poi, per Natale, cosa vuoi che succeda! La rivoluzione? Sono tutti a tavola, sono!”
“Amico mio, è proprio a tavola che viene il bello. Un bicchere in più e si apre un mondo. Cadono freni inibitori, si discute, si litiga e salta fuori la verità. Ognuno si mostra per quello che è. Ci sono delle sorprese, qualche volta”.
“Ma quali sorprese, questo è un quartiere di rimbecilliti … Guarda qui, guarda: apro una spia, a caso. Ecco qui, famiglia Trombetti. Cinque, sei … nove a tavola. Le lasagne sono andate e avanzate, i vassoi dell’antipasto sono mezzi pieni. Aspettano l’arrosto e già sono satolli. Cinque sono immersi nei telefonini; è come se non ci fossero. Quello parla di lavoro, figuriamoci, fa il commesso in un negozio di scarpe. Non lo ascolta nessuno. Nonno cerca di raccontare di quella volta … racconta sempre di quella volta e i nipoti sbuffano. Vuoi che questa gente faccia la rivoluzione? Non lo vedi che io e te perdiamo il nostro tempo?”.
“La famiglia Trombetti? Fammi vedere se c’è Arrigo, quello dei gratta e vinci. Si, eccolo lì il grande Arrigo! Sempre zitto e beve. Non sa cosa dire perché non ha niente da dire, gratta e vinci a parte. Sono brave persone. Cittadini modello che non danno fastidio a nessuno. Quelli li puoi sfruttare quanto vuoi; non protestano mai. Ce ne fossero! Una famiglia che ci è venuta proprio bene”.
“Come sarebbe: ci è venuta …”
“Ci è venuta, ci è venuta. Cosa credi, che siamo qui a scaldare la seggiola? Prendiamo informazioni per passarle al reparto operativo. E quelli lo sanno come indirizzare i comportamenti e i discorsi … Guarda, un allarme!”
Un led giallo e un insistente ticchettio. Allarme minore. Yuri indica uno schermo, Kevin lo accende.
“Eccoli là, sempre loro, anche per Natale rompono l’anima. Quei due lì, Enrico e Guido, quello con “Libero” che va anche bene, l’altro con “Il manifesto” che tanto bene non va. Per fortuna lo legge poco e lo capisce meno, se no bisognerebbe intervenire e ci rovinerebbe il Natale più di quanto non sia già rovinato”.
“I soliti poveri imbecilli che parlano sempre di politica e non concludono mai nulla!”
“Mah, sai, dipende dai punti di vista. Certo, sono due poveri imbecillotti che non contano nulla; per loro anche l’allarme giallo è sprecato. Però, vedi, se un allarme comunque c’è, vuol dire che, almeno di pochissimo, escono dallo schema. Loro, perlomeno, qualche domanda se la fanno, un briciolo di personalità vorrebbero averla, vagamente intuiscono che le cose dovrebbero andare meglio di così anche se poi danno risposte opposte. Il fatto che rompano le scatole, a noi e alla famiglia, qualcosa vuol pure dire”.
“Scusa, ma non è meglio il resto della famiglia, quella che mangia, beve, si diverte, prende la vita così come viene e gode dello stare tranquillamente insieme per Natale? Cosa che a noi, porca miseria, è negata?”
“Lo dici a me … Certo che è meglio. Come la famiglia Trombetti, anche questa ci è venuta proprio bene: ottime persone, tranquille, buone quanto basta, onesti lavoratori. Si fanno i fatti loro e lasciano che l’Organizzazione si faccia i fatti propri. Sono i cardini stabili della nostra stabile società. Ma, detto fra noi, sono loro un po’ imbecillotti. No, non ho detto bene. Magari sono persone intelligenti, basta vederli al posto di lavoro; solo che sono ormai manipolati, tanto che, fuori dalla loro funzione nella società, hanno abdicato alla loro intelligenza. Ascolta, ascolta il brindisi del giovane Giuseppe”:
“Alla nostra famiglia che ogni anno coglie l’occasione di litigare a Natale. Evviva! A tutte le generazioni precedenti che ci hanno tagliato il futuro continuando a litigare perché non sapevano e non sanno fare altro. Evviva! Alla mia generazione che ha cominciato a lottare per la propria sopravvivenza e quella del pianeta che i qui presenti hanno contribuito a distruggere. Auguri!”
“Questo sì che merita un allarme rosso, altro che giallo. Questo è un sovversivo. Comunichiamo subito o aspettiamo domani?”
“Per il giovane Giuseppe? Ma no! Questo è dei nostri, questo è perfetto. È lo scemo che si crede intelligente. Ha capito tutto perché non ha capito niente. Lui lotta, dice, ma non vuole litigare. Vuole lottare ma contro nessuno. Una lotta senza nemici, senza politica, senza scontri, nemmeno verbali. Non si rende conto che il futuro gliel’hanno tolto quelli che stavano sempre zitti. Quelli che erano sempre daccordo, che non facevano politica, che non litigavano mai se no si rovinava il Natale. Anche il suo Natale di oggi che, con la sua pace, il suo vogliamoci tutti bene, è fondamenta di quel futuro immutabile che a lui è negato.
Io e te e l’Organizzazione che ci paga siamo i suoi nemici. Noi che siamo qui a proteggere la sua tranquillità, le sue feste, le pacifiche riunioni familiari, che garantiamo lo scorrere facile del tutto va bene. E lui, Giuseppe lo scemo, è dalla nostra parte. Se non vuole che si discuta di politica, lascialo fare. Non è quello che vogliamo noi?”
“Guarda, un allarme rosso!”
“Fai vedere. Accidenti, è Arturo, sempe lui. L’ho detto mille volte di togliere quell’allarme. Dice sempre le stesse cose e le dice contro di noi, è vero. Ma è un impotente, non ha mai combinato nulla, non lo sta a sentire nessuno”.
“Il solito scemo, come Giuseppe?”
“No, questo non è scemo, è pazzo. Un pazzo tranquillo che urla urla ma poi si calma e rientra nei ranghi. Un vecchietto che fa il gioco nostro ma i capi nostri si ostinano a non capirlo e non tolgono l’inutile allarme rosso, Questo ci fa comodo, non lo capisci?”
“Sinceramente no. Non capisco come possa fare al caso nostro uno che dice, anzi, urla il contrario di quello che diciamo noi, che ci denuncia, addirittura”.
“Tanto questo non combina nulla, non ha mai combinato nulla. Allora, ci conviene lasciarlo dire. È un esempio per tutti. Per tutti quelli che dicono che non c’è libertà di pensiero e di parola, per quelli che criticano e dicono che siamo in una dittatura, che la democrazia è una vuota parola. Ma non vedi, possiamo dire noi, c’è Arturo là che sbraita quanto vuole, che dice cose che non stanno né in cielo né in terra e noi gli permettiamo di dirle in piena libertà. Non è democrazia questa, non è libertà?”
“Si, però finché Arturo è un impotente …” “Certo, ci mancherebbe altro”.
LUCIANA RUSSO
Messaggi
Quella mattina gli alunni della classe media IB erano tutti in fermento. Aspettavano con ansia il testo del compito di matematica poiché era l’ultimo test del primo trimestre. L’insegnante li aveva già avvertiti che avrebbero dovuto ricordare tutte le cose fatte fino allora e chiaramente la tensione si tagliava a fette. Per tutti, tranne che per Raffaele Di Franco che sedeva compostamente al suo banco e guardava assorto un punto alla sua destra che si trovava al secondo banco, uno davanti al suo. La coda di cavallo di Lucia era elettrizzata perché la proprietaria si muoveva velocemente ora a destra o a sinistra ma mai indietro. Lui era come ipnotizzato dal gioco di luce che il sole faceva su quei capelli castano chiaro. Ora sembravano biondi e subito dopo un po’ più scuri. Non lo sapeva nemmeno lui quello che gli stava succedendo, stava bene solo quando la vedeva ma improvvisamente la lingua gli si attaccava al palato e lui non riusciva a dire una parola. Luca gli dette una gomitata”: oh ma ti sei rimbambito? Guarda che la Prof. sta per darci il compito. Ricordati che lo devi passare a me e io poi lo passo a Marco. Hai Capito?» Lui si girò e con un cenno del capo assentì. Si aveva capito. Ma gli altri lo capivano?
Gli capitava di stare delle ore in camera sdraiato sul letto con gli occhi fissi al soffitto. Non parlava. La mamma ogni tanto entrava e provava a scuoterlo. Allora si alzava e fingeva di mettersi al tavolino a studiare. Il giorno dopo a scuola andava senza aver fatto nulla ma essendo uno scolaro abbastanza intelligente riusciva sempre a recuperare all’ultimo. Fino a due mesi prima lui non l’avrebbe nemmeno guardata Lucia. Era una delle tante femmine insopportabili della sua classe che rideva in maniera isterica con le compagne, soprattutto quando all’intervallo camminavano per il corridoio guardando con aria di commiserazione i maschi della classe. C’era un tacito accordo, però, fra lui e Lucia; si aiutavano, lui le passava gli esercizi di matematica e lei quelli d’inglese. Facevano così sin dalle elementari. Lei era sempre vestita con jeans e dei maglioni che le potevano fare da vestito e lui la percepiva come uno dei suoi amici.
Ma il giorno prima delle vacanze di Natale lei era arrivata in classe pettinata, i capelli raccolti in una magnifica coda , i soliti jeans ma sopra portava un maglioncino rosso attillato e Raffaele s’era accorto che ora quando lo guardava lui diventava rosso fino alla cima dei capelli. Lei se ne accorgeva e rideva.
«Di Franco questo è il testo. Hai 45 minuti per finirlo. Dai al lavoro. Concentrati» La Prof. era davanti a lui con il compito in mano e ridendo glielo consegnò. Con un sospiro Raffaele lesse il testo e si accorse che era facilissimo, molto simile ad un compito precedente. Si parlava sempre di un rubinetto rotto, che perdeva tot gocce al minuto e si voleva sapere in quanto tempo la vasca sarebbe stata piena. Che barba pensò lui. Ma questi professori avevano tutti i rubinetti rotti? Era dalle elementari che svolgeva sempre questo tipo di problema, ora, chiaramente più complesso. Prese la penna ma prima si girò ancora verso Lucia che nel frattempo si era tolta il gommino che tratteneva i capelli per rifare la coda. I suoi capelli sembrava avessero tutte le sfumature dell’oro. Così almeno sembrava a lui. Rimase con la bocca aperta e la penna a mezz’aria finché gli arrivò una seconda gomitata «oh ti sbrighi? ». Come in trance Raffaele prese il cellulare dalla tasca e senza pensare inviò un whatsapp a Lucia.
«Ciao. Oggi vado da mio nonno che abita nella tua via. Facciamo la strada insieme? »
La risposta arrivò in un lampo con un emoticon che riportava il segno di OK e un sorriso di Lucia che si girò per un secondo nella sua direzione.
Con una espressione da ebete riprese a esaminare il testo del compito non accorgendosi che La Prof era di fronte a lui con la mano tesa.
«Bene, Raffaele non ti ci facevo. Usare il telefonino per avere la soluzione del problema. Avanti dammelo»
«No guardi è un equivoco ho solo mandato un messaggino a mio nonno per avvertirlo che oggi, dopo la scuola, vado da lui» ribattè sempre più rosso
«va bene, allora vediamolo» reagì l’insegnante
«NO» fu la risposta quasi gridata di Raffaele e strinse il cellulare nel pugno.
Seguì una nota sul diario, la convocazione del genitore e chiaramente l’annullamento del compito. La docente era furiosa quanto Raffaele era pieno di una gioia che lo riempiva tutto. Guardava l’insegnante con uno sguardo commiserevole e sembrava voler dire che quel giorno niente lo toccava e niente poteva spezzare quel sentimento che aveva dentro di lui e che lo faceva sentire più grande e maturo. Si sentiva come un adulto.
Alla fine delle lezioni Raffaele accompagnò Lucia a casa e poi senza farsi vedere da lei fece dietrofront e andò a casa sua dove attraverso il registro elettronico era già arrivata una comunicazione nella quale si invitava i genitori ad un colloquio urgente con il preside e l’insegnante di matematica. Seguirono urla porte sbattute e la frase di Raffaele ripetuta come un mantra «Nessuno mi capisce, nessuno mi vuol capire” ma all’ingiunzione di suo padre di dargli il telefonino non potè rifiutarsi e nella fretta non cancellò il messaggio di Lucia.
Il padre lesse più volte il messaggio, in silenzio e ogni volta lo guardava. Provava pena per quel figliolo che stava crescendo non solo in altezza. Gli prese la testa fra le mani e fissò ancora i suoi occhi in quelli del figlio. Colse la prima ombra di turbamento e l’abbandono dell’infanzia.
«Va bene. Questo, il telefono, lo tengo io visto che devo andare dal preside ma la prossima volta non t’inventare un nonno dove non c’è», disse suo padre e alle rimostranze di Raffaele alzò una mano per dire basta.
Raffaele avrebbe ricordato sempre quell’ episodio con emozione, anche a distanza di dieci anni. In un istante era passato in un’altra età.
PAOLO BARONI
CAPPUCCETTO ROSSO 2020
Erano le nove di una domenica mattina di aprile. Il sole era già tiepido, l’aria ancora fresca e gli uccellini cantavano i loro saluti al giorno. Sul viale a mare, alla fermata dell’autobus, c’era solo una ragazza. Capelli biondi, raccolti in una crocchia sulla nuca, un po’ fuori moda per gli anni venti del duemila, viso intelligente, occhi di un verde luminoso ma attraversati da una virgola di malinconia. Indosso, un impermeabile sbottonato rosso vivace, con un cappuccio lasciato a penzolare sulle spalle. Sotto, si intravedeva un maglione azzurro cielo e gli immancabili jeans con i tagli alle ginocchia. Insomma, una tipica ragazza di circa quindici anni dei giorni nostri. Letizia, questo era il suo nome, attendeva la LAM blu per recarsi sul viale della stazione, come ogni domenica mattina, per fare visita alla nonna. Pensate, nel terzo millennio, un’adolescente che dedica le prime ore del giorno festivo per portare alla mamma di suo padre una borsa di cose da mangiare: biscotti fatti in casa, marmellata preparata con frutta di stagione, yogurt e tante altre cose buone che la mamma della nostra ragazza aveva preparato con cura. «Fai attenzione che non si rompa niente in autobus – si era raccomandata la donna – ci sono due barattoli di vetro e sai quante buche ci sono per strada. Siediti vicino all’autista, tieni la borsa ben stretta e non dare confidenza a nessuno. Ci sono tipi poco raccomandabili in giro».
«Mamma, non sono una bambina, – si era lamentata anche quella volta sua figlia – che vuoi che mi succeda in pieno giorno! E poi anche se non ho il cellulare, appena arrivo dalla nonna ti chiamo». Ogni volta Letizia non mancava di fare notare che un telefonino sarebbe stato utile e non un costoso sfizio.
La mamma era molto apprensiva nei riguardi della figlia perché, da quando suo marito era stato licenziato ed era emigrato in Germania per trovare un lavoro stabile, la donna sentiva tutta la responsabilità di un capofamiglia, senza averne né la forza né l’indole. Ed era la donna a dovere accudire il piccolo Giorgino di soli sei anni che dava qualche grattacapo in casa e a scuola. «È così spreciso e distratto – aveva rimarcato il primo giorno di scuola la maestra con gli occhiali– mentre l’altra, quella con le lentiggini, aveva detto che il governo aveva tagliato i fondi e che non c’erano maestre di sostegno sufficienti per bambini con problemi di dislessia come il piccolo Giorgio. «Dobbiamo arrangiarci con le nostre forze», aveva concluso al colloquio con i genitori. E la mamma di Giorgio e Letizia si arrangiava come poteva. Aveva quasi smesso di fare la sarta per stare dietro al figlio e questo incideva non poco sul misero bilancio famigliare sostenuto dai pochi soldi che arrivavano mensilmente dalla Germania. Letizia aiutava la famiglia non chiedendo niente di tutte quelle piccole cose che fanno piacere alle ragazze della sua età e dando qualche “ripetizione” agli alunni delle elementari. Non aveva però né la pazienza né le conoscenze giuste per dare una mano al fratello. La nonna, anziana ma in salute, contribuiva come poteva con parte della sua pensione sociale. Per questo, sua nuora, per sdebitarsi, le mandava ogni settimana un “pacco dono” di cose fatte in casa che le piacevano molto.
Quella domenica di aprile, la LAM BLU tardava. Anzi non si era visto nemmeno un autobus percorrere il viale a mare verso nord. Letizia da oltre venti minuti stava in piedi sotto la pensilina di vetro imbrattato con disegni osceni, con il sacchetto di carta del supermercato che le aveva lasciato un segno rosso sulle dita.
«C’è stato un incidente verso sud, la circolazione è tutta bloccata». La voce era uscita dal finestrino di un SUV nero. La ragazza si abbassò leggermente per sbirciare dentro all’abitacolo. Un signore dall’aspetto distinto, con due baffetti da sparviero, le stava sorridendo. A letizia non piacque. In modo particolare trovò spiacevole lo sguardo che la stava fissando con un’espressione golosa.
«Grazie, non ho fretta», rispose lei solo per cortesia.
Ma quello insistette: «Se vuoi ti porto verso il Centro. Vai alla Messa in Duomo?
«Vado dalla nonna», rispose automaticamente la ragazza e si pentì della sua precisazione subito dopo averla pronunciata.
«Dove abita la tua signora nonna?», chiese in modo troppo affettato lo sparviero allungandosi verso il finestrino che dava sul marciapiedi.
«Vicino alla stazione», disse la bocca della ragazza senza che lei avesse deciso di parlare.
«Sai che io sto andando proprio in quella direzione? Monta su che in due minuti sei a casa della nonna».
“Non dare confidenze agli sconosciuti”. La voce della mamma risuonò nelle orecchie della ragazza. «Grazie, ma… ora chiamo la mamma e mi faccio accompagnare, ho qui il cellulare», mentì Letizia.
«Non disturbare la mamma dai, di che hai paura, non ti mangio mica… sono persino vegetariano… e sono un medico, fare del bene alle persone è il mio mestiere. Vedi questo simbolo sul vetro? – aggiunse lo sconosciuto indicando l’adesivo della croce dei medici sul parabrezza – sto andando all’ospedale… lavoro in pediatria, sono il primario, mi chiamo Lupi. Dott. Luigi Lupi. Dai sali su che ti porto dalla nonna e magari vengo a conoscerla, le persone di una certa età sono molto attraenti».
Letizia improvvisamente vide in quello strano individuo sorridente un’opportunità. Un pediatra? Magari poteva darle qualche consiglio per Giorgino. Si avvicinò al Suv e la portiera si aprì da sola come per magia.
Quando la nonna andò ad aprire la porta vide la nipotina che stringeva la solita borsa del supermercato. Dietro di lei, notò un signore distinto, con due baffetti da sparviero e uno sguardo goloso, come quello di un lupo.
«Entra Amore – disse la nonna – oggi non sono sola, finalmente è venuto l’idraulico ad aggiustare la caldaia.
Dalla porta della cucina si affacciò un omone vestito con una tuta azzurra. In mano stringeva una chiave inglese lunga come un fucile da caccia.
«Nonna ti presento il dott. Lupi», disse Letizia voltandosi con il sorriso sulle labbra. Ma il pediatra stava scendendo le scale due scalini alla volta. “Che strano… se ne sta andando. Forse è in ritardo al lavoro… – commentò Letizia rattristita – Sai, è il primario di Pediatria all’ospedale. Voleva conoscere te e anche Giorgino, – aggiunse – Però che gentile, mi ha accompagnato fin quassù senza chiedermi niente».
«Io lo conosco il primario di Pediatria – ribatté la nonna – È la dott.ssa Fortuna, è lei che ti ha fatto nascere quindici anni fa».
SIMONETTA MANASIA
Bagni fiume
Quando è una bella giornata, la domenica, io e mio marito passeggiamo, lungo i muri dell’Accademia Navale sino a arrivare alla Rotonda.
Io respiro l’aria salmastrosa, il vento sfiora il mio viso e gli occhi si nutrano di una visione meravigliosa: l’onda che s’infrange tra gli scogli.
Il mare per me, alcune volte, somiglia a un vecchio che da secoli ormai fa la stessa cosa e i suoi schizzi che si elevano tra le frastagliate coste sembrano sbuffi di stanchezza.,
I bambini tirano i sassi nelle buchette sotto gli occhi vigili dei genitori.
I lanci provocano numerosi cerchi e la felicità dei piccoli è veramente appagata.
Cammino serenamente ma quando passo davanti ai Bagni Fiume il mio cuore ha un sussulto pensando alle varie estati passate, sdraiata su quella distesa di cemento prima di arrivare ai trampolini.
Avevo diciassette anni quando tuffandomi di testa, seguiti poi da altri tuffi a forma di cappio, così si diceva in gergo, si avvicinò un bellissimo ragazzo fiorentino che espresse il desiderio di imparare anche lui a immergersi con la naturalezza che dimostravo.
M’innamorai ma lui non fu sincero perché si avvicinò a me con la scusa dei tuffi ma aveva puntato la mia amica anche lei di Firenze.
Erano concittadini e dopo qualche anno si rincontrarono e si sposarono.
In quel periodo adolescenziale fui veramente triste, pensavo che nessuno si sarebbe innamorato di me, diventando sempre più antipatica.
Il gruppo di amici si allargava sempre di più ma la mia partecipazione era sempre molto passiva.
Una sera la combriccola decise di fare una cena sui bagni con immersione notturna.
Il mio comportamento era noioso e anche emarginante, sino a che un grande cocomero fu portato in tavola, è un frutto che non amo particolarmente ma siccome insistevano ne, presi una grossa fetta, il sapore non mi sembrava il solito era diverso così ne presi un’altra fetta.
Cominciai a ballare e cantare, non capivo cosa mi era preso, ma un’amica svelò il segreto, nel frutto erano state inserite tante iniezioni di Cognac.
Mi spogliai, non del vestito scollato e leggero ma di quell’aria misera e infelice.
Abbandonai l’umore nero e ripresi la mia adolescenza in mano divertendomi e senza mettere una maschera per sembrare diversa.
Quell’estate passò in fretta e cominciai a notare e a incuriosirmi un ragazzo non tanto loquace, ma che gradiva almeno era la mia convinzione la mia presenza.
Le sue occhiate furtive, e la sua gentilezza mi colpirono.
Un giorno presa fiducia in me stessa, lo invitai il sabato sera a un concerto. Saranno state le note romantiche oppure il tramonto con i suoi colori splendenti.
Lui mi prese la mano quasi tremante io glie la strinsi forte, mi voltai verso di lui e il bacio scoccò.
Abbiamo finito la nostra passeggiata, siamo alla rotonda e i Bagni Fiumi sono ormai alle mie spalle.
Due ragazzini sulla panchina si fanno i complimenti e attirano la mia attenzione, sospiro forte con molta nostalgia.
Quelle magiche estati non ritorneranno più ma quel ricordo passando davanti ai Bani Fiume non mi abbandonerà mai e l’emozione sarà sempre grande.