Gruppo scrittura Scarabeus 2019-20

Quarto incontro


ARTURO FALASCHI

Porpi alla gre’a.

Polpi alla greca, per quelli di dentroterra. Ricetta antica che mi suggerì nonna Eva quando ormai non stava più in Borgo San Iacopo (Chiedo scusa, borgosaiopo, tutta una parola), ma in via dell’Arco, con la Cesara.
Lei e la Cesara, amiche e vicine di casa per tutta la vita, abitavano, a metà di borgo San Iacopo, in quelle che si chiamavano “le case basse” che stavano proprio dove ora sorge il supermercato, anzi, per essere precisi, dove si trova il parcheggio del supermercato. Di fronte c’era, e c’è ancora, l’uscio fondo, un passo carrabile, ora; senza l’apostrofo, allora.
Avevano molto in comune: più di ogni altra cosa la miseria nera e perfino le lenzuola di scorta del letto grande, che venivano utilizzate alternativamente dall’una e dall’altra quando quelle titolari dovevano essere lavate.
Ora, sfrattate e vedove, avevano in comune anche il piccolissimo appartamento a piano terreno in via dell’Arco.
Litigavano in continuazione e c’era da pensare che avessero litigato per tutta la vita e che proprio la lite fosse il collante della loro amicizia.
Forse era questo il modo di reagire alla miseria e all’ingiustizia del mondo nei loro confronti. Nonna Eva con l’aggressività continua. Verbale, naturalmente, anche se, in passato, quando la forza l’aveva, danni ne aveva fatti, e non pochi né lievi.
La Cesara era più subdola. Alle urla di rabbia di nonna rispondeva mantenendo la calma, con sarcasmo tutto livornese, gli occhi furbi e attenti, bugiarda quanto bastava.
Non mi piaceva la Cesara; tutta la mia simpatia e ammirazione andava a nonna Eva, alla sua spontaneità immediata, alla sua rabbia di aninale ferito.
Così l’andavo a trovare spesso in via dell’Arco, al costo di sorbirmi la Cesara e il suo isopportabile sarcasmo.
Per la verità, in via dell’Arco avevo un altro piccolo inconveniente. C’era, quasi sempre in mezzo di strada, una povera ragazza down, alquanto scema per giunta, che si era innamorata di me. Si potrebbe perfino essere lusingati della cosa, se non ché, la povera ragazza, quando mi vedeva arrivare, mi veniva incontro dichiarando pubblicamente il suo amore sempre con lo stesso grido: “Bello, palle!”. Che ripeteva, scaricando su di me la sua passione e inseguendomi mentre io, quasi correndo, mi rifugiavo da nonna.
Ma veniamo ai polpi. Quel giorno erano, i porpi alla gre’a, argomento della quotidiana lite tra nonna Eva e la Cesara. Perché quelli erano la cena della sera, e proprio alla gre’a avevano deciso di cucinarli; solo che, riguardo alla ricetta, erano in disaccordo completo.
“Bello di nonna (ero io bellodinonna tutta una parola), prima di tutto la cipolla”.
“Eva … – la ghigna sospesa tra il disprezzo e la compassione – la cipolla … ma sei scema …”.
“Ora t’arronzo la pentola! O cosa ci voi mette’: l’aglio?”
“Diavolo! L’aglio, l’aglio, o cosa …”
E avanti di questo passo. Polpo a parte (anche sulle dimensioni del polpo c’era da ridire, ma quello l’aveva comprato la Cesara …), non erano daccordo su nulla.
Io cercavo in qualche modo di redimere la lite, anche perché ero realmente interessato alla ricetta che aveva tutta l’aria di far parte della tradizione livornese, ma l’impresa stava tra il difficile e il disperato.
Cercai di capire cosa c’entrassero i greci in tutto questo. Loro sembrava non capissero la relazione tra i greci e la gre’a. La parola “greci” ricordava loro, vagamente, solo un posto dove ti andavi a fare benedire quando avevi sfortuna.
“E ti devi andà’ a fa’ benedì’ da’ greci!”  Si diceva allo scalognato cronico. Ma che esistesse una chiesa, in via della Madonna, con questo nome, né la Cesara né nonna Eva sembrava avessero notizia. Per non parlare di nozioni geografiche!
Insomma, ora vi dico cosa riuscii a tirare fuori anche se, per onestà, devo dire che ascoltavo più nonna Eva che la Cesara. Un po’ per dovere di “bellodinonna tutta una parola”, un po’ perché la Cesara non mi stava simpatica, un po’, e questa è la ragione principale, perché la Cesara era bugiarda e, pur di dare torto a nonna, era capace di inventare qualunque cosa.
Poi, col passare del tempo, la ricetta l’ho un po’ modernizzata e dunque:
Prendete dei polpi surgelati, uno a persona, della grandezza di una mano.Scongelateli al momento sotto l’acqua corrente avendo cura di pulirli e di eliminare i pezzetti di ghiaccio rimasti incastrati.
Nella pentola a pressione fate un soffritto con molta cipolla e poco peperoncino.
Mettete nel soffritto i polpi ben grondanti d’acqua e fate che prendano colore da tutte le parti. Aggiungete poca passata di pomodoro (un cucchiaio abbondante ogni due persone), salate e quando il tutto comincia a bollire, chiudete la pentola a pressione.
Tempo di cottura quindici minuti dal “fischio”. Dopo dieci minuti però, io apro la pentola e dò un’occhiata. L’acqua del polpo dovrebbe avere formato una salsa abbondante e liquida. Se così non fosse, aggiungete poca acqua, tenendo conto che la salsa dovrà inzuppare il pane agliato.
Il pane agliato va preparato nel frattempo abbrustolendo una fetta di pane, grande ma sottile, per ogni piatto e quindi strusciandoci sopra l’aglio. (“Deve puzzà'” –  raccomandava nonna con grave disappunto della Cesara).
Cotto che sia, il polpo viene adagiato, meglio se in piedi, sulla fetta di pane e il tutto è bagnato abbbondantemente di salsa e cipolla.
Se viene bene è anche bello a vedersi.
Un mistero che non ho risolto è come facessero, nonna Eva e la Cesara, a mangiarlo il polpo, visto che, in quanto a denti, erano scarsissime. Forse se li prestavano l’una all’altra, come facevano con le lenzuola.
Il vino rosso, mi raccomando, magari giovane e il primo bicchiere, per favore, alla salute di nonna Eva.
Che ora non c’è più. Se n’andò a novantotto anni, ben dopo la Cesara. Ancora autosufficiente quando fu ricoverata all’ospedale. Andai a trovarla ma dormiva; dormiva continuamente e non si svegliò fino alla morte. Ma sognava e parlava nel sogno. Così posso riferire le ultime parole che ho udito da lei:
“Deh, fammene uno mezzo e mezzo …”. Sognava il ponce, la grande passione della sua vecchiaia.
Mi raccontarono, gli infermieri, che era stato lo spasso del reparto, mettendo in imbarazzo i dottori, specialmente quelli giovani, chiedendo con insistenza informazioni dettagliate sulle loro prestazioni erotiche: frequenza, durata, posizioni, dimensioni e quant’altro.
Non andai al suo funerale, come mi aveva richiesto:
“Bellodinonna, un ci venì’; tanto fanno tutti finta di piange’. Della tu’ nonna un le ne frega nulla a nissuno”.
Come sempre, aveva ragione lei. Per questo mantengo vivo il suo ricordo. Sono sicuro che è ancora là ad aspettarmi, come in via dell’Arco, pronta a letià’ anche col Padreterno per difendermi.


PAOLO BARONI

Novelle della buonanotte

Sto camminando lungo uno stretto sentiero delimitato da una vegetazione fitta e impenetrabile. Non so perché mi trovo in questo luogo né dove sono diretto.  Mi fermo. Mi siedo sulle foglie umide e un particolare mi torna alla mente: Pinocchio. Sì, l’ultima cosa che mi ricordo sono io accanto al lettino di mio figlio di cinque anni accoccolato fra le coperte. Gli sto raccontando la consueta novella della buonanotte. Non leggo, racconto a memoria, come faccio sempre. Avevo iniziato con il famoso incipit: “C’era una volta… un Re? No, c’era una volta un pezzo di legno”. Ed ero arrivato al punto in cui Pinocchio, fa le boccacce ai danni del povero Geppetto che gli ha appena disegnato la bocca e subito dopo il monello gli allunga anche un calcio con i suoi piedi nuovi di zecca. Poi il burattino scappa di casa per conquistare la libertà e Geppetto, lo rincorre gridando: “Se ti acchiappo, faremo i conti quando saremo a casa! Incontrano un carabiniere che, volendo veder chiaro nella faccenda, si piazza a gambe aperte in mezzo alla strada e afferra per il naso il burattino. “Perché scappi?”, gli chiede e Pinocchio gli lascia intendere che sta scappando per timore dei maltrattamenti del babbo. Così, senza colpa, Geppetto finisce in prigione.
Il mio ricordo finisce qui, ho nella mente la descrizione della scena del carabiniere che porta in prigione Geppetto. Quanto tempo è passato? Un minuto? Un’ora? Un anno? Tutto è sfumato.
Mi alzo e continuo a camminare: è l’unica cosa che posso fare. Arrivo davanti a una muraglia di roccia che mi ostacola il cammino. Osservo il muro di pietra altissimo, invalicabile. Mi rammenta qualcosa incastonato nel mondo delle favole, delle novelle che mi hanno raccontato o che ho letto. Una di quelle che oggi racconto ogni sera al mio bambino. Quale storia narra di una grossa pietra che sbarra il cammino? Una porta. Una formula segreta. Ma certo, Alì Babà! L‘ingresso che conduce alla caverna colma dei tesori nascosti dai quaranta ladroni. È il luogo descritto nelle favolose storie delle Mille e una Notte. Rido mentre stille di umori tiepidi mi colpiscono il viso cadendo dalle foglie sopra di me.
«Sesamo, apriti!», pronuncio per scrupolo, senza crederci fino in fondo. Invece una parte dell’enorme pietra si muove verso di me. È una porta, quella porta, che si spalanca e mostra un varco.
“È un sogno?” Mi chiedo. No, quando ci si domanda se si sta sognando significa che siamo svegli. Lo sanno tutti.
Timoroso, entro. Davanti ai miei occhi appare un poggio dal declivio delicato e grandi prati verdi che disegnano il paesaggio. Somiglia allo scenario che ci si aspetterebbe di incontrare passeggiando nel Cheshire inglese. Il cielo è un drappo azzurrino ed emana un fiato calmo e mite. Rimango attonito per qualche istante. La fiaba di Alì Babà non esiste più. Dove sono finito? Un coniglio bianco con gli occhi rubizzi mi sorpassa da destra. Estrae un orologio dal panciotto, lo consulta e prosegue la corsa. Un coniglio con il panciotto! Ma chissà perché non mi fa meraviglia. Ormai non mi stupisco più di nulla. L’animale sparisce dentro a una tana sotto una siepe.
Se lo seguissi sprofonderei giù in un precipizio, come la piccola Alice narrata dal Reverendo Carroll? Mi avvicino per sbirciare nel buco. In fondo alla stretta galleria, scorgo una casetta di legno adagiata in mezzo alla campagna. M’infilo nel cunicolo e procedo carponi finché non esco all’aperto. Intorno a me, nessun albero interrompe la sconfinata, sabbiosa, desolata prateria che all’orizzonte si cuce con il cielo a formare un’omogenea coltre grigia. Nessuno in vista. Raggiungo speditamente la casa e guardo dall’unica finestra ponendo le mani intorno al viso per coprire il riflesso della luce sui vetri. Dentro, una stanza con una stufa arrugginita, una credenza per i piatti, un tavolo, quattro sedie e due letti. Nel mezzo del pavimento, una botola conduce probabilmente nella cantina. Un nome di bambina mi accarezza la memoria: Dorothy.
D’improvviso un ululato, come se il vento volesse avvisarmi della furia che sta per scatenare. L’erba gialla nei campi comincia a piegarsi al ritmo delle raffiche e forma ondate di energia rabbiosa. Nuvole nere si chiudono a imbuto, il pomeriggio diventa buio e tutto prende un colore plumbeo. “Devo trovare un riparo”, penso. Giro la maniglia, la porta, si apre. Mi precipito all’interno quando la casa ha iniziato a tremare come scossa da un terremoto. La cantina è la mia unica salvezza. Raggiungo la botola, sollevo l’asse di legno: un odore di umido mi toglie il respiro. Una scala a pioli fissata all’apertura si perde sotto, nel buio. Inizio a scendere con cautela e mi fermo solo quando poso i piedi sul terreno.
Mi ritrovo in una grotta dalle cui pareti filtra una luminescenza verdastra. Due strade cupe e strette si biforcano dinanzi a me. Quale prendere? Mi avvio verso destra. La galleria scende lievemente e diventa simile alla navata di una cattedrale gotica. Cammino e passo dopo passo mi accorgo che più procedo in quel mondo sotterraneo, più la temperatura aumenta. Se avessi l’equipaggiamento del professor Otto Lidenbrock e dei suoi compagni forse potrei raggiungere il centro della terra. Invece, contrariamente a ogni razionale ipotesi scientifica, una brezza profumata aumenta gradualmente d’intensità. Sto procedendo verso l’esterno e non dentro a un mondo di spelonche. Arrivo a uno spigolo rotondo, svolto e, ai miei occhi increduli appare una laguna sospesa nell’oscurità, illuminata solo dal chiarore esanime della luna incoronata da una miriade di stelle. Il disegno della riva piano piano prende forma, si tratta di un’isola. In quale mondo sono giunto? Ci mancano solo i pirati, i canti, i guizzi giocosi delle sirene e penserei alla baia scintillante dell’Isola che non c’è. Sono finito dentro una ragnatela d’illusioni, prigioniero della mia conoscenza letteraria, come il Conte di Montecristo di Calvino nella fortezza d’If. Forse, basterebbe pronunciare un’altra formula incantata, come quella che mi ha fatto entrare in questo labirinto di fiabe. Quali saranno le parole giuste? Abracadabra? Bibidi bobidi bu? Provo a pronunciarle. Non succede niente.
“Come si interrompe questo incantamento?”, chiedo ad alta voce a me stesso. Devo trovare il bandolo della matassa che confonde realtà e fantasia, devo sciogliere il filo che compone questo labirinto senza fine, la mia fortezza d’If che mi tiene prigioniero. Esiste un’unica soluzione. Adesso lo so. L’unico compimento che possa interrompere la relazione comunicativa fra scrittore e lettore. È un’altra formula magica, una sola parola che segue tutte le parole, tutte le frasi pensate, scritte, lette, narrate. Due semplici sillabe unite da un unico accento: FINE


NADIA PAOLACCI

Cappuccetto Rosso 

Tutte le fiabe iniziano con “c’era una volta “, questa inizia con una data precisa , era il mese di marzo del 1940.
Anna, questo è il nome della protagonista, si stava incamminando lungo il sentiero di campagna che l’avrebbe condotta dalla nonna.
Era una bambina di dieci anni, e la mamma , quella mattina , l’aveva incaricata di far visita alla nonna che viveva dall’altra parte del paese . La madre era una sarta che cuciva per gli abitanti del luogo, e ad Anna, per ripararla dal freddo invernale , aveva confezionato una mantella rossa con il cappuccio.
Il rosso non era il suo colore preferito, ma non si poteva opporre, mamma l’aveva cucito, racimolando  la stoffa chi sa dove, quindi : indossarlo e via !
Il cruccio di Anna , era che quando passava dalle strade del paese tutti la salutavano chiamandola Cappuccetto Rosso, il suo nome  di battesimo sembrava l’avessero scordato.
Quella mattina , con un cestino di dolcetti , aveva ubbidito alla mamma incamminandosi verso la casa della nonna . Ben sapeva che per arrivare , avrebbe dovuto attraversare quella zona ombrosa che tanto le faceva paura, così piena di scricchiolii , fruscii che le facevano battere forte il cuore .
Lo sapeva anche la mamma, ma nel comandarla ad andare , si era limitata a minimizzare … era il vento che creava quegli strani rumori  , le sue erano paure assurde , ormai era grande , doveva superarle .
Anna passo dopo passo, cercava di arrivare alla meta . Quel giorno stranamente, passando dal boschetto aveva avvertito un silenzio “ assordante “. Continuò a camminare , e per darsi coraggio , aprì il cestino, vide quelle leccornie, e iniziò a sgranocchiare una ciambella , così attraente con sopra la glassa , mamma a lei non le preparava, dicendo che troppo zucchero poteva creare le carie ai denti , mentre per la nonna questa prelibatezza era concessa, perché priva quasi totalmente dei denti .
La bambina camminava veloce cercando di oltrepassare in fretta quella zona , un rumore … si volta “ chi c’è dietro le spalle ? “ . Un vecchio lupo spelacchiato che cammina lento mantenendo una distanza di sicurezza , muso a terra, annusa per quanto il suo naso possa servire …  “ha fame ! “ pensa Anna , incrociano i loro sguardi e lei pensa a ciò che le ha detto la mamma :  – bada al lupo ! potrebbe mangiarti.
Non le sembra un animale così aggressivo, si vede che è solo affamato , il suo ventre è come un otre vuoto . Che fare ? Lo spavento iniziale è seguito dalla compassione ! Si ferma e la bestia fa altrettanto … nel cestino ci sono rimaste solo tre ciambelle … ne lancia una, lui cauto inizialmente sospettoso , poi il profumo e la fame l’attira e strusciando sul ventre , la ingoia in un solo boccone, così fa anche per le altre due .
La mamma , pensa Anna , perché sapendo che avrebbe potuto fare brutti incontri , ha preferito continuare a cucire lasciandomi sola ?  Lei dice che sono grande ma io ho solo dieci anni ! Però , devo dire che l’incontro non è stato così pauroso !
Riprende il cammino ,  e il lupo la segue a distanza .  Giunta a casa della nonna, Anna entra, si abbracciano , purtroppo deve confessarle il perché del cestino vuoto . La nonna la rassicura che nessuna ciambella al mondo vale la sua presenza .
Intanto , al  lupo rimasto fuori dalla porta , la nonna gli getta degli ossi di pollo che lui si gusta , solo dopo che la porta di casa è stata richiusa .
– Il lupo quando è vecchio , dice la nonna , viene allontanato dalla massa  e per lui è sempre più difficile procurarsi del cibo , le prede migliori se le mangiano i giovani del branco  provvedendo alla selezione delle varie specie  che braccano . Loro non fanno altro che seguire l’istinto di predatori , per cui non devono essere considerati cattivi.
Sentono bussare alla porta , è l’amico cacciatore che spesso passa a far visita alla nonna , ha fucile e munizioni, ma , per lo più , la sua caccia si limita a cercare funghi e , a seconda delle stagioni, fragole e lamponi .
  – Ho incontrato un  lupo !  Un povero animale macilento e sofferente , guardate nel mio carniere .
Quali prelibatezze erano custodite dentro ? : mele selvatiche , pere succulente , due grossi funghi e un coscio di animale indefinito .
La nonna , non ci pensa due volte , accende il camino, apparecchia la tavola e quando la fiamma inizia a crepitare mette su un pentolone con dentro acqua , carote, sedano, cipolle e il coscio indefinito.
I tre gustano il brodo con piacere , chissà il cosciotto di quale animale era , fatto sta che il lupo macilento non compare più nel bosco .
Selezione umana ?

LUCIANA RUSSO

Natale

Maria era seduta in cucina e guardava pensosa la tovaglia rossa che si accingeva a mettere sulla tavola di sala già allungata per accogliere i parenti. Sarebbero stati una decina in tutto . Certamente, quello, non era un problema ma suo cognato si. Il cenone ormai seguiva il suo stanco rito. Alle 8.30 suonava il campanello e i parenti tutti vestiti a festa irrompevano in casa dove Maria con marito e figli, Giuseppe e Giulia, li abbracciava sorridendo. Guido, il cognato, salutava suo marito con calore, con troppo calore forse. Si levava il cappotto e con fare noncurante appoggiava il giornale “il Manifesto “ sul tavolino d’ingresso dove già c’era in bellavista il quotidiano “Libero”.

<oggi no per favore> diceva Maria e qualcuno rispondeva prontamente <ma che vai a pensare? Oggi mangiamo e stiamo in allegria.>

Si, in allegria,  rimuginava Maria come tutti i precedenti Natali. Iniziavano, già agli antipasti con delle schermaglie leggere. Guido esordiva< e anche quest’anno aspettiamoci un bel balzello sulla luce, gas, telefoni etc…> Tutti si dichiaravano d’accordo compreso Enrico il marito di Maria.

<non c’è un politico che si possa chiamare tale, tutti bravi ad aumentare le tasse. Sono tutti uguali> rincarava Enrico. Seguiva un silenzio pesante di alcuni minuti in cui ognuno pensava il contrario di tutti gli altri finchè Guido in maniera sommessa esordiva< proprio tutti  uguali no. Qualcuno è peggio degli altri>. E nominava un politico del partito  del cognato. A quel punto il congegno infernale era messo in moto e nessuno era in grado di fermarlo. I due cognati si affrontavano, è il caso di dirlo, in punta di forchetta ma puntate come fossero pistole.

<Ma ti ricordi l’ultima crisi di governo?> urlava Enrico

<Certo che me la ricordo e te lo ricordi quando avete fatto cadere Prodi? E grazie a questo siamo andati sempre peggio? Ma che faccia che hai>

<La mia faccia? E la tua? Ma ti sei visto?> e così dicendo si girava intorno cercando rinforzi dalla famiglia.

Già la famiglia. Le due sorelle li ignoravano e i figli non vedevano l’ora di aprire i regali.

Quell’anno gli antipasti erano filati via leggeri e i tortellini stavano già nuotando nel piatto di ogni singolo commensale. Guido propose un brindisi al quale tutti aderirono.

< Si un brindisi, un brindisi a tutti noi. Che si possa stare insieme sempre così. Evviva! A Giulia e al suo fidanzato, Evviva! A Giuseppe che quest’anno ha la maturità. Evviva! A un futuro sereno per il nostro paese. Evviva!

<Un momento cosa vuoi  dire con questo sereno? E’ colpa nostra, del mio partito se le cose vanno di male in peggio o del tuo partito?> ribattè Enrico rosso per l’eccitazione.

E la bagarre cominciò ma durò pochissimo perché Giuseppe si alzò e senza chiedere il permesso fece il suo brindisi

<Alla nostra famiglia che ogni anno coglie l’occasione di litigare a Natale. Evviva! A tutte le generazioni precedenti che ci hanno tagliato il futuro continuando a litigare perché non sapevano e non sanno fare altro. Evviva! Alla mia generazione che ha cominciato a lottare per la propria sopravvivenza e del pianeta che i qui presenti hanno contribuito a distruggere. Auguri!>.


ANITA MATTEELLI

Quando intelligenza e volontà vanno a braccetto…

       Ci sono studenti e studenti, alcuni possono studiare senza dover pensare ad altro se non  a riempire i tempi liberi dallo studio, praticando sport o dedicandosi ad altre passioni, altri invece, che non hanno avuto la fortuna di nascere da genitori benestanti o comunque, in grado di dargli la possibilità di studiare senza affanni, hanno dovuto faticare il doppio per darsi  questa possibilità, lavorando e studiando.

            Dopo queste brevi riflessioni, mi piace raccontare una storia esemplare di una  eccellente persona che non ha avuto facilità di studiare perché nato in una famiglia  molto, molto modesta, in un paesello che per raggiungerlo aveva solo la strada mulattiera la qual cosa, rendeva  la possibilità di frequentare scuole superiori con grande difficoltà e sacrifici. La scuola media e superiore, si trovavano nel comune di cui faceva parte anche il paese in questione, il quale si poteva raggiungere solo a piedi  e per vari chilometri.

            La persona di cui mi accingo a parlare, si  chiama Stefano, che conosco personalmente, era un  ragazzo molto intelligente, dotato di curiosità e amore del sapere.

            Figlio di un modesto  artigiano, uomo pacifico e tutto dedito alla famiglia e al  lavoro, erede di una piccola bottega  di falegnameria, lasciata  in eredità dal nonno  che gli ha anche  insegnato il mestiere mestiere che il padre a sua volta  insegnava al figlio.  Nonostante  nei pomeriggi dovesse lavorare con il padre,  era riuscito a frequentare la scuola media e, a quattordici anni il primo anno di liceo, anche grazie all’aiuto economico del prete e della sua maestra che avevano capito quanto fosse  voglioso di studiare.

            La vita della famigliola continuava nella semplicità e parsimonia, contenti che il figlio potesse anche studiare, nonostante dovesse  lavorare con il padre nei pomeriggi.

            Poco prima che finisse il primo  anno di liceo, mentre  stava   lavorando nella piccola falegnameria,  suo padre si senti male e dopo poche ore lasciò questa vita.

            Facile immaginare quale  tragedia fu,    la vita come spesso  fa, sconvolge  drasticamente con il grave lutto,    il  sereno andamento della famigliola molto unita  come poche.

            Finito  a stento l’anno scolastico, Stefano  diventa, l’unico sostentatore  della famiglia  composta da madre, sorella e fratello,  più piccoli di lui, rimboccandosi generosamente le maniche, come si dice, accollandosi il fardello dei familiari e della bottega.

            Stefano al fianco del  padre, aveva imparato il mestiere,  si trattava di riparare o costruire sedie, qualche tavolo, rare credenze, semplici spalliere di letti ecc. che i più “ricchi” del paese potevano permettersi,  quindi finito a fatica il primo anno di liceo, iniziò a lavorare a tempo pieno  in falegnameria, aiutato, nei momenti  di maggior lavoro, da un  amico e ex dipendente di suo padre che  conosceva il mestiere, poi  la sera fino a tardi leggeva, studiava con i libri usati, prestati o presi  in biblioteca.

            Quanta fatica portare avanti  famiglia, lavoro e studio, ma lui non mollava.

            Era cresciuto in fretta Stefano, aveva la saggezza di un uomo, le persone del paese ci misero poco ad approfittare  di questa sua dote, approfittando della sua innata gentilezza, andavano da lui ogni volta che avevano  dei problemi. Fosse un documento arrivato dal Comune, una lettera scritta da un parente emigrato in qualche altra parte del mondo e impossibilitati a leggere perché analfabeti, o un figlio  bisognoso di spiegazioni di qualche lezione di scuola non del tutto capita. Insomma  era  diventato per i paesani il loro Guro, una specie di  maestro intellettuale, stimato e venerato, al quale poter chiedere qualsiasi cosa, ricompensato poi con frutti della terra, vino, olio farina, formaggio, uova polli ecc. ricavato dai lori campi, dalle pecore o poche mucche che possedevano.

            Riusciva a mantenere la famiglia dignitosamente e sopratutto, il fratello e la sorella poterono studiare senza gli affanni con cui ha dovuto farlo lui e ne era fiero.

            Dopo qualche anno,  quando  gli altri due fratelli oramai  erano grandi e avanti negli studi, anche la madre trovò da fare servizi in casa dell’unico  medico condotto del paese, quando la madre non fu più in grado di badare alla casa.

            L’anziana colf, orfana di padre e madre, cresciuta in casa loro dopo  che l’orfanotrofio  all’età di  diciotto anni l’aveva  dimessa, così era la regola, aveva lasciato il servizio con dolore, ma necessario perché negli anni che le restavano voleva  godersi figli e  nipotini,  fu lei che suggerì al medico, di chiedere  a Matilde, così si chiama la madre di Stefano,  di prendere il suo posto.

            Il medico, vedovo con un figlio ormai grande, universitario, che viveva a Pisa in una casa per studenti,  conosceva bene la signora Matilde, la sua onestà,  la sua affidabilità, incoraggiato anche dalla colf, le chiese se se la  fosse sentita di occuparsi della  sua casa  e sopratutto della madre,  praticamente tutto il giorno, ragion per cui le propose  anche  di trasferirsi fin quando la sua mamma fosse stata in vita, nella sua  grande casa con tutti e tre i figli, in più con un stipendio di rilievo. Era la famiglia più benestante del paese e  tanto nobili d’animo.

            La famiglia si riunì per valutare questa offerta, discussero su tutti i pro e i contro, entusiasti il fratello e la sorella, un po’ meno Stefano, aveva una sensazione strana, una specie di sentimento di gelosia, ma, dopo tanto pensare, e dopo aver parlato a lungo con il medico, poi con la madre, si convinse che  si poteva provare ma che lui  sarebbe rimasto  in casa sua, voleva  stare un po’ da solo aveva in mente dei progetti e doveva poter riflettere in solitudine, comunque sempre a disposizione per qualsiasi bisogno .

            Si era innamorato e da due anni fidanzato con una brava ragazza e, nella nuova situazione poteva finalmente pensare un po’  a se.

            La madre  guadagnava benino, inoltre non spendeva un soldo  per il mangiare, bollette, a tutto pensava il medico, per il quale lei  iniziava a provare un sentimento di gratitudine e di vero affetto, si era accorta che anche  lui non era indifferente, i ragazzi erano sereni  e questo per lei era gioia, la prova  di questa nuova condizione di vita  era più che soddisfacente, così il figlio maggiore,  poteva cominciare davvero a pensare a se stesso.

            La madre del medico venne a mancare dopo due  anni,  il medico rimasto solo, finalmente si decise ad esternare  i suoi sentimenti a Matilde chiedendole, ora che si conoscevano meglio, di  restare insieme ma non come dipendente, ma come marito e moglie e formare così una nuova famiglia con i due figli di lei ed il suo che sembrò felice e quasi sollevato dalla preoccupazione di sapere suo padre solo, perché dopo la laurea in ingegneria fisica,  aveva scelto di rimanere all’università come ricercatore.

            Nel frattempo Stefano decise di vendere la bottega, proprio al figlio dell’amico e dipendente del babbo e suo aiutante, voleva riprendere gli studi interrotti  frequentando una scuola serale a Lucca, la mattina lavorò nella cartiera  di un amico, come segretario,   e, il pomeriggio lo dedicava allo studio.

            I professori delle serali si accorsero ben presto che lui era già molto avanti rispetto al programma,  e decisero, parlando di lui alle riunioni del consiglio di classe, di suggerirgli di presentarsi  come esterno agli esami di stato, erano più che  convinti che ce l’avrebbe fatta, dato la sua preparazione e  buona cultura generale. Non aspettava altro Stefano, fu felicissimo e intensificò ancor più gli studi orientato dagli insegnanti lieti di aiutarlo. La maturità andò benissimo prese il massimo dei voti, quindi decise di portare avanti il suo sogno di sempre, si scrisse all’università scegliendo  lettere,  per poter completare il suo sogno, quello di insegnare.

            Non perse mai un esame, in quattro anni e poco più, a trenta anni, si laureò  con trenta e la lode, dopo tanti sacrifici, la felicità  era immensa per lui e la sua  compagna e l’adorata famiglia.

            In quei quattro anni aveva  accanto la fidanzata che già lavorava come assistente di un avvocato, pure lei  laureata in legge,  quindi era ora di pensare al matrimonio e ad un figlio tanto desiderato da entrambi, aveva  già un discreto gruzzolo, ricavo della vendita della bottega e lavorando entrambi,  erano riusciti a risparmiare un bel po’ di denaro quindi, niente mancava  per completare la felicità che meritavano, anche  per la casa decisero di  rimanere nella casa  dei genitori,  con qualche adattamento di loro gusto.

            Iniziarono i preparativi e fu un grande evento per gli abitanti del paese che tutt’oggi ricordano, i matrimoni furono due, sull’altare in chiesa, erano in quattro e si perché decisero di sposare insieme, lui e la sua ragazza, sua madre ed il medico, le campane  suonarono a festa tutto il giorno, al pranzo parteciparono circa trecento invitati, fu difficile trovare un ristorante che potesse contenere  un tal numero di persone, essendo fine giugno, decisero di farlo all’aperto in un grande prato davanti al ristorante scelto e fu una giornata indimenticabile per tutti.

             Stefano, oggi è vicino alla pensione, è stato un magnifico insegnante  presso un liceo classico di Lucca, ha seminato bene  cercando di aprire la mente dei suo tanti alunni, stimolando  curiosità e a guardarsi dentro  per scegliere  con cognizione  cosa volevano diventare nel loro futuro, lascerà la scuola portando nel cuore l’affetto, la stima dei  ragazzi e dei colleghi. Gran bella persona Stefano, un uomo magnifico un esempio per  tanti.

            Quando intelligenza, volontà, onestà e semplicità  vanno a braccetto tutto  diventa possibile, quasi magico!


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