Gruppo scrittura Scarabeus 2019-20
Ottavo incontro
Simonetta Manasia
Una diversa opinione
Federico frequenta l’ultimo anno della facoltà di giurisprudenza, gli mancano due esami, è un ragazzo molto attivo suona la chitarra e con il suo complessino partecipa a diversi concerti nelle zone vicine al suo territorio.
E’ un vero sportivo, si allena in bici durante il week end e fa jogging alla sera lungo le passeggiate a mare della sua città.
Un giorno stava leggendo un libro e fra le pagine trova un biglietto scritto a mano, legge e rilegge con attenzione quella frase:
“Le cose belle della vita non si studiano, né s’imparano, ma s’incontrano”
Di Oscar Wilde
Federico interrompe la lettura e riflette sulle parole dello scrittore nonché poeta che ama molto.
Non è molto d’accordo su quell’affermazione perché le cose belle giungono proprio quando tu t’impegni molto e studi con passione come lui ha fato in questi ultimi quattro anni per ottenere la laurea in giurisprudenza. Un obiettivo che sarà l’orgoglio della sua famiglia. Quindi senza studio non si arriva al traguardo prefissato.
Se pensa alla musica, quanto sacrificio: Solfeggi, applicazione e esercitazioni con lo strumento sino a raggiungere una buona autonomia. Suonare la chitarra formare un gruppo è stata la cosa più bella per me.
La passione per lo sport è arrivata in tarda età, mi sono allenato con costanza, ero un po’ cicciottello sono dimagrito. Un giorno si e uno no mi alleno, è splendido sentirsi bene e in sintonia con il proprio corpo.
Le cose belle possono succedere perché è stata la tua famiglia a insegnartele.
Mia madre diceva: aiutare i disabili in difficoltà è per noi stessi una grande gratificazione.
Il tuo amico non raggiunge la sufficienza in matematica e tu hai degli ottimi voti, vai a casa sua per farlo esercitare a comprendere e vedrai che migliorerà.
Seguire corsi di pronto soccorso per salvare delle vite, necessità di studio e volontà , affermava mio padre.. E’ una cosa bella imparare le manovre che potrebbe in pochi minuti ribaltare la situazione di pericolo e vedere il paziente riprendere a respirare autonomamente.
Non nego certo che esistono eventi che sollecitano a arrivare e conquistare cose che hai sempre desiderato e sono gli incontri fortunati che cambiano la vita.
Puoi cantare in un bar e un impresario ascolta e ti offre un contratto con la Rai e si apre per te uno scenario futuro meraviglioso.
Puoi non aver voglia di andare a una festa da ballo ma la tua amica ti obbliga e tu vai controvoglia e incontri l’amore della tua vita.
Sono convinto che le cose belle si possano incontrare ma per quanto mi riguarda e con grande umiltà devo correggere, è forse è un po’ azzardato farlo, la frase di Oscar Wilde.
“Le cose belle della vita si possono ottenere studiando e imparando dagli altri ma per i più fortunati si possono anche incontrare”
ARTURO FALASCHI
Le cose belle della vita non si studiano né si imparano ma s’incontrano. (O. Wilde)
Io, una volta, ho incontrato uno scoglio. Non è che non lo conoscessi già da prima, anzi, quella zona tra Calafuria e il Boccale la conosco come le mie tasche, da sempre.
Fu però un caso che ci incontrassimo davvero. Fu come quando frequenti un ambiente dove c’è un sacco di persone: in effetti le conosci tutte, le incontri tutte, le frequenti tutte ma poi, un giorno, una frase, un sorriso, una stretta di mano ed ecco che una di quelle esce dal gruppo e diventa una persona vera.
Ecco, l’hai incontrata, l’hai incontrata davvero. Non è un Tale, una Tizia: è lui o lei con nome, cognome e sorriso, e parola che dice, dice davero.
Così lo scoglio: era uno scoglio come un altro prima che diventasse lo scoglio, il mio scoglio.
Fu quando portai un amico torinese, che il mare lo aveva visto in cartolina o, peggio ancora, sulle spiagge di Rimini e dintorni, a vedere il mare quello vero, quello livornese.
Rimase incantato, non voleva più venire via malgrado il cacciucco di mamma che ci aspettava. In particolare notò una stretta insenatura un po’ più in là del Boccale, stretta e profona, quasi un fiordo in miniatura. L’acqua di un verde smeraldo, trasparente come un cristallo, appena appena sciacquante contro la cornice di scogli di arenaria levigata.
Era chiusa da uno scoglio, quasi piatto, che si elevava meno di un metro dall’acqua, isolato perché di non facile accesso, quasi una scalata salendo o scendendo lungo la scogliera.
Rimasi affascinato anch’io. L’avevo visto cento volte eppure non l’avevo visto mai.
L’incontro fu, per me, decisivo.
Lo adottai come amico per la vita, gli dissi che non avrei avuto altri scogli che lui e lui mi permise di chiamarlo: “il mio scoglio”.
Tutti i giorni dell’estate io, fresco pensionato con moglie lavoratrice, sono andato da lui, venticinque chilometri in bicicletta, quaranta minuti più o meno, zainetto sulle spalle, piccolo asciugamano, pettine, occhiali da vista e da nuoto e l’immancabile libro con tanto di lapis per sottolineare frasi importanti.
Lui era sempre lì ad aspettarmi, un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro. Fermo, decisamente e ostinatamente fermo, a sfidare sole e tempesta, a riemergere dopo ogni assalto dell’onda. Quasi un esempio per me, una lezione di vita, un invito, la fedeltà di un vecchio amico, la presenza a un incontro: il nostro incontro.
Aveva preparato per me una depressione lunga e stretta, la misura esatta del mio corpo. Profonda non più di qualche centimetro, quanto bastava per non scivolare via, accuratamente levigata e un rialzo finale che sembrava fatto apposta per appoggiare la testa quando leggevo il libro.
Era un po’ più alta della zona piatta, quella che toccava il mare, in modo che il maestrale potesse soffiarci su a mitigare la calura e conciliare il sonno.
Bastava un leggero salto per scendere in basso, fare tre passi e giù, di testa, a infilarsi nell’acqua come un ago, nell’abbraccio fresco di quel verde, di quel blu argento.
Il sudore della pedalata si scioglieva in benessere, tornava l’energia e partiva la nuotata, decisa, robusta.
Risalire era facile, a mostare l’accoglienza che il mio scoglio aveva per me: una crepa, appena sopra l’aqua, per infilarci le dita e tirarsi su; due o tre incavi sottacqua, sulla parete verticale ricoperta di un velluto rosso e verde, dove appoggiare i piedi; uno, due e tre ed ero all’asciutto.
Mi sdraiavo nel mio letto di arenaria e mi addormentavo. Mi svegliavo, leggevo e mi addormentavo ancora.
Era stregato quel luogo, quella nicchia scavata per il mio corpo. Tra un sonno e l’altro le mie capacità di concentrazione sulla lettura e di comprensione della stessa erano esaltate come mai in altri luoghi. Pagine complicate, concetti difficili, mi entravano dentro agevolmente, senza sforzo. La parte migliore della mia cultura si è formata lì.
I tre volumi de “la sapienza greca” di Giorgio Colli e i quattro della “Storia delle religioni” di Filoramo li ho assimilati lì. Con Severino, Bodei, Galimberti e soci.
Infatti, là intorno, scolpiti sulla roccia, ci sono strani segni. Dicono che siano prodotti dall’erosione dei venti sulla tenera arenaria. Ma l’erosione non forma disegni geometrici che si ripetono, simili, a decine, forse centinaia. Sono circolari o ellittici e rigonfi, quasi delle bolle pronte a scoppiare se non fossero solidificate; sono a forma di trapezio rettangolo, la base molto allungata, gli angoli arrotondati. All’interno altre forme geometriche, trapezi anche questi, quasi allineati, come a formare i caratteri di una incomprensibile scrittura.
Ua vera scrittura, la definisce Kolosimo in un suo libro.
Come se quel luogo avesse qualcosa di particolare, di arcano o, addirittura, di sacro.
Il luogo sacro di chissà quale religiosità, di misteriosi sacerdoti che sapevano distinguere luogo da luogo, profano da sacro. Che scrivevano sentenze e testimonianze, graffiando gli scogli.
Allora, quell’incavo su cui mi stendevo, così adatto a ricevere un corpo umano, avrebbe potuto essere un’ara, un punto privilegiato dove una forza, la forza, si concentrava e suscitava capacità sopite e dimenticate. Ciò che ne era rimasto esaltava la mia intelligenza e la mia memoria. La bruciava rapidamente e la restituiva nel sonno.
Nel mio breve sonno, dove lo scoglio mi parlava di tutto questo; quel mio scoglio incontrato che mi accompagnava verso una de “Le cose belle della vita che non si studiano né si imparano ma s’incontrano”.
PAOLO BARONI
La vera bellezza
Il giovane camminava ormai da diverse ore. La strada che percorreva sembrava non condurre da nessuna parte. Sempre uguale, senza fine: solo polvere, sassi, alberi, montagne. Stanco, spossato, impaurito, Osvaldo, questo era il suo nome, si fermò a respirare a pieni polmoni l’aria umida della sera imminente. D’improvviso, una luce, un lume tremolante nel crepuscolo tra gli alberi che delimitavano i lati della strada. Cento passi e avrebbe forse raggiunto un rifugio. Imboccò lentamente il viottolo che conduceva a una casetta di legno con un’aia tanto misera e disordinata che sembrava abbandonata da anni. Una catasta di tronchi vicino ad un recinto senza animali, un pozzo di mattoni rossi, un pagliaio traballante, un fontanile dal quale usciva un filo d’acqua sottile come una lacrima. La luce debole che illuminava una finestra e la finissima virgola di fumo del camino facevano intuire che la casupola era abitata. Il giovane si avvicinò all’uscio, curvò la schiena appoggiando le mani sulle ginocchia per raccogliere il coraggio di rivelare la sua presenza. I suoi arti erano ormai due pezzi di legno secco, sentì un assoluto bisogno di rifocillarsi, di dormire. Percepì il profumo di legna che si mescolava a un odore piacevole di minestrone. I crampi allo stomaco si fecero intensi e gli ricordarono che non mangiava da almeno dodici ore. Drizzò la schiena e allungò il braccio per bussare.
Ma prima di continuare questo racconto mi sembra sia obbligo rivelare il perché un giovane benestante e di bell’aspetto si trovasse da solo, a piedi, sfinito e affamato davanti a una misera casa di legno ai limiti di un bosco. Ebbene, dovete sapere che Osvaldo era il figlio unico di un mercante di stoffe che viveva in una grande città del nord. La sua famiglia, composta, oltre che da lui, dalla madre Veronica e il padre Antonio, era rispettata da tutti, invidiata da molti, amata da alcuni, temuta da nessuno. Vivevano con i guadagni del negozio, ma il capofamiglia, ormai anziano, si sentiva ogni giorno sempre più stanco e desiderava che suo figlio, al compimento dei suoi venti anni, si decidesse a prendere il suo posto nel commercio. Il ventesimo compleanno arrivò, ma Osvaldo, che amava molto divertirsi ed era poco incline a lavorare, aveva continuato a passare il tempo fra feste e amici, senza minimamente pensare di aiutare i suoi genitori nella conduzione del negozio. «Prima di mettermi a lavorare chiudendomi in un negozio fra tessuti e trine voglio girare il mondo, conoscere gente nuova, vedere luoghi diversi. Incontrare la bellezza. Ecco, prima di prendere le redini del negozio, desidero incontrare la vera bellezza». Con queste parole rivolte ai suoi genitori Osvaldo aveva cercato di rimandare il suo impegno nel lavoro della famiglia. Suo padre, saggio e comprensivo, gli aveva risposto: «Vai, mettiti in viaggio e torna quando avrai incontrato quello che cerchi: la vera bellezza, come dici tu. Ma sappi che non hai tutto il tempo che vuoi. Noi aspetteremo un anno, al termine del quale venderemo il negozio e ci ritireremo a vivere in una casetta che ho comprato fuori città».
Così fu che Osvaldo, dopo aver scelto il cavallo più bello dal mantello nero come il buio, si era messo in viaggio per avventurarsi nel mondo alla ricerca della vera bellezza.
I giorni erano passati veloci. Il giovane aveva visitato luoghi incantevoli, città colme di gente indaffarata, persone alte o basse, gente dalla pelle lucente e i capelli colore del grano, o dalla carnagione d’ebano, e le chiome crespe e inanellate. Aveva percorso campagne semideserte, piazze affollate, aveva visto laghi azzurri, montagne imbiancate di neve, palazzi decorati, campanili impressionanti, ponti audaci. Ogni cosa lo aveva affascinato e arricchito ma niente e nessuno gli era sembrato la vera bellezza che stava cercando.
Dopo molti mesi, undici per l’esattezza, Osvaldo si trovò senza soldi per viaggiare, mangiare e pagarsi un alloggio. Vendette il suo destriero nero, barattò persino i suoi anelli di famiglia per un pasto e un vestito nuovo e senza strappi, finché decise che era ora di tornare verso casa. Ma la strada del ritorno a piedi era molto più lunga del previsto. Il giovane cominciò a disperare di poter riabbracciare li suoi. Si mise in cammino ma non era in grado nemmeno di riconoscere i luoghi che attraversava tanto erano feroci i morsi della fame e la stanchezza accumulata nelle ossa. Quando finalmente iniziò a percepire che la lingua della gente che incontrava era simile alla sua, capì che non era più tanto distante da casa. Ma ormai Osvaldo era talmente sfinito che non riusciva nemmeno a svolgere i lavori che qualche anima buona gli offriva in cambio di un tetto e di un tozzo di pane. Continuò a camminare come se le gambe fossero spinte da una volontà indipendente, un automatismo al di là della sua volontà.
E adesso eccolo lì, davanti a quella casa di legno ai limiti del bosco a elemosinare un ultimo piatto di minestra e un letto.
Bussò.
La porta si aprì. Riconobbe subito gli occhi belli e tristi di sua madre.
Si abbracciarono.
«Osvaldo, sei tornato?»
«Mamma, che cosa fai tu qui? E il babbo? Dov’è il babbo?»
«È di sopra che riposa».
Osvaldo apprese dalla mamma che poche settimane dopo che era partito, il babbo si era sentito male e non era più riuscito a lavorare. Per questo motivo avevano affittato casa e negozio a un conoscente con la promessa che quando il figlio sarebbe tornato avrebbe ripreso alloggio e attività. Tutto si sarebbe aggiustato. «Abbiamo deciso di aspettarti qui in questa casa alle porte della città. Un giorno o l’altro tornerà da noi, ci siamo detti».
Il giovane udì la voce del babbo provenire dal piano di sopra. «Hai trovato la vera bellezza, Osvaldo?»
«Sì, l’ho trovata, babbo», rispose il giovane salendo le scale due scalini alla volta. Adesso non sentiva più né la fame né la fatica.
Si avvicinò a suo padre che si era seduto sul letto per andargli incontro.
«L’ho trovata, padre mio. Siete voi e la mamma. La vera bellezza non si può cercare, si può solo riconoscere quando ti passa accanto a illuminare i tuoi giorni».
ANITA MATTEELLI
Dopo l’inverno arriva sempre la primavera.
Stavo passando un periodo terribile, ce la stavo mettendo tutta per non perire nello sconforto totale, ma era davvero molto dura!
Non riuscivo ad intravvedere una possibilità di futuro, o quale futuro mi aspettasse dopo aver perso il compagno di una vita per 40 anni e dopo un anno di sofferenze indicibili sue, mie e di tutta la famiglia.
Mentre si è nel dolore è difficile pensare alla vita che continua malgrado tutto, invece è così, la vita trova sempre motivi per spingerti ad andare avanti, ma lo si capirà sempre dopo, dopo che il dolore si è un po’ placato e dopo che qualcosa capita per impegnare testa e cuore.
La poca forza che mi davo era per amore dei miei figli, che soffrivano come me per la perdita del padre e, altri cari che soffrivano per noi, mi imponevo di farmi vedere forte, volevo dimostrare loro, che in ogni situazione non si deve perdere la testa, l’amore per la vita, la forza d’animo, la speranza, mentre dentro un dolore inenarrabile.
La vita, spesso ti batosta davvero forte, ti fa provare l’inferno, ti fa sentire nel buio più totale, ed io provavo rancore verso questo trattamento, pensavo di non meritare tanto dolore, ma sempre, l’amore, la fede incrollabile, riuscivano a placare questo livore interiore.
Piano, piano stavo riprendendo a vivere nella nuova condizione, ma bastava, una musica, un profumo, una sensazione di soffio leggero nel viso, a risvegliare, quel senso di forte mancanza, facendomi provare una stretta al cuore, e sentire lacrime scorrere senza controllo e a sentire ancora tanta fragilità.
Quando camminavo per strada cercavo occhi che mi riportassero al mio amore, sognavo di rivederlo in qualcuno, ma anche se qualche volta trovavo piccole somiglianze, lo sguardo o ciò che trasmetteva, non mi faceva intravvedere la sua essenza, quel qualcosa di misterioso che ti attrae e ti fa innamorare, e che nessun altro poteva eguagliare, sempre restavo delusa e malinconica.
Dopo tutto questo lungo “temporale” si riaffacciò il sereno e, come scrive Alda Merini in una breve e ottimistica poesia che recita:
“Ma da queste profonde ferite usciranno farfalle libere”
Circa due anni da quando mio marito non era più con noi, durante un pranzo dove c’erano anche figlio, nuora e loro suoceri, mia figlia e genero ci comunicarono la notizia più bella del mondo, stavano aspettando un figlio.
Fu un’emozione bellissima fortissima, che mi fece piangere, ma questa volta di gioia, anche se, subito mi colse una stretta al cuore pensando a chi non era a gioire con noi e, in quel momento la mancanza fu più forte che mai, ma orta era tempo di sorridere e a quel tavolo gioia e sorrisi non mancarono
La gioia toccò l’apice il giorno della nascita, un bel maschietto, bello come il sole, un nuovo grande amore, Filippo, il nostro raggio di sole dopo tanto inverno, la mia anzi la nostra primavera.
Le farfalle della Merini sono uscite, uno dietro l’altro, quattro amori di nipoti, che mi hanno dato carica, gioia, amore e voglia di vivere.
Fu questa per me la prima ricompensa della vita che tanto mi aveva strapazzato, c’è chi incontra un altro amore per non essere più soli, insomma in qualche maniera la vita qualcosa restituisce e si può andare avanti abbastanza bene. Certo il sapore cambia, cambia parecchio, a volte può capitare anche che sia più bello di quello di prima, per me, ora che i nipoti non mi impegnano più tanto, quel sapore mi manca moltissimo.
Filippo
E’ arrivato “Filippo” sono “nonna”
La svolta, la primavera
che aspettavo
da quando l’ecografia mostrava
Un “fagiolino”che già batteva di vita.
Una gioia autentica,
una fiammata d’amore,
un sole luminoso
che sfiora le nebbie d’inverno,
è l’innamoramento puro,
più bello che esista,
perché senza nulla chiederti
ti fa dare di te tutto!
E’ il miracolo di vita,
è lo stupore nei suoi occhi,
è incanto,
è musica,
è poesia vera,
è profumo di vita,
è la “Primavera”
è mio nipote Filippo
e ricomincio a vivere.
E tu tesoro, cresci felice
e sano tra l’amore di tutti.