Gruppo scrittura Scarabeus 2019-20

Dodicesimo incontro


ARTUTO FALASCHI

Solo parole?

Io sono Arturo. La frase stabilisce un rapporto (tra Arturo e io) e una identità (Arturo ed io sono lo stesso).
Al tempo stesso, nella frase, Io, in quanto soggetto, si diversifica da Arturo in quanto predicato. La diversificazione verbale mostra come, per stabilire un rapporto, sia pure un’identità tra due esistenti (io e Arturo) occorra che i due esistenti siano, appunto due. Per essere due non possono essere lo stesso. Devono essere distinti e separati.
Così, nell’affermare che io sono Arturo, devo porre Arturo e io come separati e distinti. L’uno come altro rispetto all’altro.
Nell’affermare che io sono Arturo, nego che io sia Arturo.
Anche se dico che Anita è Anita cado nella stessa contraddizione. Perché per affermare una identità, debbo porre una distinzione – separazione tra i due termini dell’identità. Debbo cioè far diventare due (Anita e Anita) ciò che dichiaro essere uno (Anita = Anita).
Debbo negare che Anita sia uno, la stessa, per poter affermare che lo sia, la stessa.
Ma Anita non può essere sia la stessa che non la stessa.

In generale, per stabilire una relazione, magari un’identità tra l’uno e l’altro, devo prima porre l’altro come separato dall’uno, come altro dall’altro, negando quindi quell’identità che intendevo affermare.

Questo è alla base del meccanismo delle parole, del discorso e del pensiero: la separazione dell’identico e la ricomposizione mediante la relazione tra i separati. (Analisi e sintesi). Questa è l’inevitabile contraddizione di ogni dire.

Secondo questo meccanismo contraddittorio nasce il mondo, il mondo creato dalla parola.

“Nel principio la Parola era, e la parola era appo Dio, e la Parola era Dio.
Ogni cosa è stata fatta per essa; e senz’essa niuna cosa fatta è stata fatta.
In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini”. (Giovanni).

La creazione è dovuta alla parola; senza la parola nessuna cosa è fatta, nemmeno la vita degli uomini, nemmeno la luce.
“E Iddio disse: sia la luce e la luce fu”.
Il potere della parola è potere creante proprio perché è separazione, frattura, individuazione, isolamento. La cosa nominata, il dare nome, estrae il nominato dall’omogeneo circostante e lo fa cosa, cosa creata. E più la parola si elabora e si affina, più il lessico si estende e si differenzia, si puntualizza, più l’unità si disgrega in monadi sempre più piccole. Fino al mondo atomico e sub atomico; fino al non senso del mondo quantistico.
Dio porta gli animali alla presenza di Adamo per vedere che nome avrebbe dato loro. Perché Adamo continui l’opera creatrice, portando all’esistenza i singoli animali separandoli, con il Nome, dall’indistinta vita animale nella quale si identificavano (nella quale erano gli uni agli altri identici; anzi, nella quale non c’erano né gli uni né gli altri).
Ma, in contraddizione con ciò, Dio mette in guardia Adamo dal mangiare il frutto dell’albero della conoscenza.
Perché la conoscenza è figlia del pensiero, del pensiero e della parola separanti. Conoscendo, l’uomo separa sé stesso (anche da sé stesso), ne fa un individuo. Separa Arturo da Io e Anita da Anita. Separa, infine, il bene dal male, il positivo dal negativo, l’essere dal non essere e chiama nulla il non essere, separa la vita dal suo contrario e suscita la morte. Quella morte che non c’era nel giardino dell’Eden. Dove la parola era “appo Dio”.
Adamo “sa” che deve morire. Accetta la contraddizione: lo stesso Adamo può essere sia vivo che morto.
Perché la frase “Adamo è vivo”, mentre identifica Adamo e vita, afferma che una cosa è Adamo, un’altra cosa la vita. E la frase “Adamo è morto” mentre identifica Adamo con la morte (quello stesso Adamo), afferma che una cosa è Adamo, un’altra cosa la morte.
I contrari sono lo stesso: lo stesso è diviso nei suoi contrari.

L’uomo che “conosce” sa della contraddizione: Adamo non può essere sia vivo che morto, Io non può essere e non essere Arturo. Allora divide Adamo in sostanza e forma; sostrato permanente e attributo accidentale. E decide che attributi, predicati, diversi e opposti possano convenire allo stesso sostrato “in tempi diversi”.
Adamo è prima vivo, poi morto.  Io, prima non ha un nome, poi è chiamato Arturo.
Nasce il tempo e il divenire.  Strumenti necessari alla “conoscenza”. Il passato che più non c’è (Adamo che visse) e il futuro che non c’è ancora (Adamo che morirà).
Frutti del pensiero che pensa e della parola che dice.

Oltre al dolore, si prova sempre sgomento e stupore di fronte all’amico morto, al cadavere dell’amico. C’è qualcosa di stupefacente in quella sua rigida immobilità, nel suo non respirare più, nel suo non reagire alla presenza degli altri.
Come può essere accaduto? Come può, quel cadavere, essere il vivente che era?
Come è possibile sostenere che quell’Arturo morto sia lo stesso Arturo vivo? Lo stesso.
Per essere lo stesso, in quell’estremo cambiare qualcosa deve essersi mantenuto. Altrimenti quel morto non sarebbe Arturo ma un altro.
Il sostrato che ha attraversato la morte è forse solo il nome: Arturo.
Così come era solo un nome, una parola che crea: “Arturo vivente”, ed è solo una parola che crea: “Arturo morto”.
Perché “Arturo è vivente” separava il soggetto dal predicato, come se la vita di Arturo non appartenesse ad Arturo ma fosse solo un attributo temporaneo di Arturo. Temporaneo, in quanto ora è sostituito dall’altro attributo: morto.
In effetti, quello che era, era “Arturo che è vivo”; quello che è è “Arturo che è morto”. Non c’era e non c’è un Arturo che non sia né vivo né morto. Se non l’astrazione di un nome, di una parola.
Così è evidente che “Arturo che è vivo” è altro rispetto a “Arturo che è morto”. Identificare questi due altri, questi due contrari, è assurdo. È un far sì che qualcosa sia, oltre che sé stessa, altro da sé.
Quindi non c’è un trapasso dello stesso Arturo dalla vita alla morte perché non c’è uno stesso Arturo che prescinda dal suo stato di vivo o di morto. C’è solo un nome, una parola gettata al vento.
“Arturo che è vivo”, questo essere qui, fatto così e così, che pensa così e così, non può essere altro da ciò che è. Non può trapassare in altro, in “Arturo che è morto”.
Arturo è un eterno.
Anche Anita.


SIMONETTA MANASIA

Un silenzio emozionante

Gianfranco, come tutti i sabati, era pronto a indossare pantalone di color marrone, camicia verde e il foulard amaranto intorno al collo.
L’uniforme, così ci correggeva il capo reparto, se la chiamavamo divisa rilevando che l’uniforme unisce tutti e la divisa divide. Anche se a mio modesto parere era la stessa cosa, pure la divisa distingue l’appartenenza a un gruppo.
Il nostro gruppo scout CNGEI si chiamava “Asterix” e quell’anno aveva deciso di compiere una buona azione prima delle feste natalizie.
Fu individuato l’istituto “Pendola”, che ospitava bambini sordomuti, l’obbiettivo far passare una giornata in allegria con quelle piccole creature particolari.
Ogni capo pattuglia doveva acquistare caramelle e cioccolatini e portare anche qualche film di cartoni animati, come gatto Silvestro e il veloce Bip Bip.
Alle 15,00 in punto, tutti presenti davanti al cancello, ci accolse la direttrice che ci fece accomodare in un grande salone con una scala enorme sulla sinistra.
Pochi minuti e al cenno della Signora decine di marmocchi con i suoi grembiulini colorati cominciarono a scendere da quei gradini bianchissimi, senza che si sollevassero in aria dei gridolini, delle risatine o qualche mugolio.
Gianfranco rimase colpito dalla situazione, quel silenzio inaspettato lo paralizzò e come lui tutti gli altri compagni.
Furono loro che con una piccola corsetta si diressero verso di noi, ci abbracciarono e ci dettero tanti bacetti.
Cominciammo a distribuire i dolcetti, espressioni di gioia si stemperarono sui loro volti.
Quando desideravano, altri cioccolatini tendevano una manina e con l’altra picchiettavano sul palmo di quella stesa per esprimere la volontà di volerne ancora.
Passammo poi in sala video e proiettammo i cartoni animati. Ognuno di noi aveva un fanciullo sulle ginocchia. Alla fine del film con il protagonista Gatto Silvestro, il bambino in collo a Gianfranco mise delicatamente una manina sulla sua ugola per sentire con il senso del tatto la vibrazione delle corde vocali e riuscì con un fil di fiato sforzato ha esprimere la parola “ GAAAATTOOO…”
Noi applaudimmo a loro modo, sollevammo le mani in alto e le facemmo vibrare e loro capirono la nostra felicità.
Per Gianfranco fu una giornata emozionante, una vera lezione di vita.
Quella notte prima di addormentarsi, ringraziò il Signore di avergli dato l’uso della parola con la grande possibilità di poter trasferire agli altri le proprie opinioni accompagnate dall’espressione degli occhi e lo spiegarsi delle labbra.
Nella speranza, che l’altro che ascolta comprenda il vero significato di quello che vuoi dire e non lo interpreti a modo suo, travisando il concetto.
Da quel giorno Gianfranco è cambiato, riflette e pondera le frasi che vuole porgere e pur conservando il suo soprannome “mitraglietta,” perché parlava tanto e molto veloce, è diventato una pistola a salve pensando e ripensando alle parole da dire, in modo da non ferire chi ascolta.
Si appuntò su un quaderno, cercando sul vocabolario, vari aggettivi e avverbi che potessero incoraggiare il prossimo.
Parole gratificanti, dolci che esprimessero sentimenti buoni come semplicemente “Ti voglio bene, mamma” o d’incoraggiamento come “ dopo una caduta ci si deve alzare più forti di prima”.
Una sola parola detta al momento giusto a una sola persona o a tante ci gratifica e ci permette di riprendere in mano la vita.
“Andrà tutto bene” come ripetiamo spesso in questi giorni colpiti da un’enorme catastrofe della pandemia, aiuta molto tutti noi.
Gianfranco non dimenticò quella giornata e fu invogliato a iscriversi ad un corso per imparare la lingua dei segni per comunicare oltre che con la parola con i gesti delle mani.


NADIA PAOLACCI

UNA PAROLA: AMORE

La via è la classica di periferia, manto stradale pieno di buche, marciapiedi sporchi di deiezioni canine e non solo, erbacce che costeggiano i palazzi dove miracolosamente spunta qualche fiore di tarassaco giallo.
Sui portoni spalancati appaiono una foresta di cartelli “affittasi camera ammobiliata “… “affittasi posto letto…”.
La sua casa è al numero otto, tre piani di scale, una porta con scritto: Maria Tosi. La sua vicina e dirimpettaia è la sua “datrice di lavoro” colei che le procura indumenti da aggiustare, orli da rifare, cerniere da sostituire, che le permettono di tirare avanti una misera vita.
La sua casa è un buco, una tana che puzza di chiuso, di solitudine, di paura.
Il suo uomo, Pietro, da mesi è sparito nel nulla.

Lei, vive nell’attesa che ritorni e forse continui a farle del male? O che qualcuno in divisa la riconduca in galera? Ma lei aspetta, gli vuole bene, con lui ha vissuto con alti e bassi per dieci anni…ora più nulla, non ha più sue notizie, la sua vera paura è di restare sola per sempre.

Maria è carina, viso dolce, occhi che traspaiono un velo di tristezza, è giovane ma quella gioventù che ha già un piede sul predellino del vagone e che se ne sta andando scomparendo dietro la prima curva della vita adulta,   si rivela uno schifo. Ha ventisei anni, una maglietta sformata, una gonnellina jeans, unghie dei piedi rosso, capelli che le ricadono sugli occhi marroni.
Pietro è scomparso dopo che le ha fatto fare cinque mesi a Sollicciano, in mezzo a tossiche, a spacciatrici e altra bella gente. Lui da sempre faceva affari, che lei non capiva bene, e frequentava gente poco raccomandabile che lo faceva scattare ad ogni chiamata telefonica. Da quando lei è uscita dal carcere lui non si è più fatto vivo.

Sola, osserva la sua tana e l’assale lo sconforto, letto sfatto, sedie colme di indumenti da riparare.
Quando ha conosciuto Pietro lei frequentava la seconda professionale, segretaria d’azienda, lui, era il bullo grande e grosso che vendeva erba davanti alla scuola.

Lei carina, lui popolare tra le adolescenti, si era innamorata, si erano presi e lasciati decine e decine di volte. Lei sempre più innamorata, lui chissà… lei a piangere il suo amore alternante, lui preso a combinare affari con i suoi amici particolari.
Questo famigerato bullo, ha messo su casa con lei, l’inizio di qualcosa che somigliava alla vita tra marito e moglie, e anche se non “fumava “spesso le metteva le mani addosso.
Due volte è andata al Pronto Soccorso e lei a dire le cose che dicono tutte nella sua condizione. La testa contro l’armadietto di cucina, le scale scivolose…e subito dopo si rimettevano insieme. Lui andava e veniva, e anche se aveva altre donne lei faceva finta di non sapere e non voleva vedere, si aggrappava a questo “amore”.
Ricorda la gita a Viareggio, in un bel ristorante avevano mangiato pesce fresco, un’altra volta che l’aveva portata in montagna all’Abetone, perché doveva consegnare qualcosa a qualcuno e lei lo aveva atteso in macchina per sei ore, poi, avevano cenato al lume di candela in una baita in mezzo alla neve.
Un giorno le aveva detto che i soldi mancavano, l’aveva portata sul viale dei Tigli… per lui lei aveva provato, ma era scappata subito dopo il primo “cliente”.
L’aveva riportata a casa: << Non sei buona a fare niente, non vali proprio nulla, nemmeno a fare la prostituta>>,
Poi la cosa dei film porno, con la frase “è diverso da battere”, ma quando il regista le aveva detto cosa doveva fare lei era di nuovo scappata.
Ancora insieme, fino alla sera in cui Pietro le ha detto << Ti porto in campagna>>, lei ha pensato “ecco ancora un altro inizio, speriamo che sia la volta buona”.
Non erano ancora usciti dalla città che li hanno fermati ad un posto di blocco: paletta con l’obbligo di accostare, la richiesta dei documenti, lui le infila qualcosa nella borsetta, e inizia a giustificarsi: << Io non la conosco, l’ho fatta salire per strada>>.
Perquisizione e dalla borsetta esce un pacchetto di cocaina, e il fermo in cella di isolamento in caserma. Lui ottiene la libertà quasi subito, e per lei la condanna da trascorrere in carcere a Sollicciano.
Dopo quel periodo tra il rumore di cancelli, di chiavistelli, di odore di sudore, di abiti sporchi è tornata nel suo buco, lo ha cercato, per urlargli in faccia il suo odio, e anche…ma non lo sa nemmeno lei cosa vorrebbe dirgli… forse che nonostante tutto ancora lo ama.


Luciana Russo

IL PESCATORE
Enrico, come sempre, era uscito da casa alle otto . Aveva fatto un sorriso svogliato alla madre e trascinando i piedi si era avviato alla fermata dell’autobus proprio di fronte a casa sua. La mamma lo guardava dalla finestra e si sentiva il petto colmo di tenerezza per quel figlio sedicenne che non diceva quasi niente. A volte i loro sguardi s’incrociavano e riuscivano a comunicare l’affetto che provavano. Enrico frequentava la terza Liceo e arrivato a scuola, in silenzio, si era seduto al suo banco nascosto nel cappuccio della felpa. Sperava che quella mattina potesse trascorrere tranquilla senza interrogazioni e compiti. Voleva pensare a Lorella, a quando stavano insieme e ai lunghi silenzi che attraversavano. Lui avrebbe voluto dire cosa sentiva per lei ma quando ci provava farfugliava qualcosa e si accorgeva che le parole dette erano diverse dal sentimento che provava. In maniera dolorosa si accorgeva che non poteva fidarsi delle parole che non riuscivano a esprimere quello che sentiva o chi veramente era. L’insegnante di lettere aveva da poco spiegato Pirandello. Si era trovato subito in sintonia con quell’autore e molto di più con Svevo. Li avvicinava il tema dell’incomunicabilità, della frustrazione, sentimenti che lui ben conosceva. Suonò la campanella e Don Romagnoli entrò in classe. Tutti si accalcarono alla cattedra. Si sentivano capiti da quel giovane parroco con il quale si davano del tu senza per altro mancargli di rispetto.

«Via ragazzi a posto – esortò il sacerdote – fatemi fare lezione. Oggi si parla di una cosa importante, di una parola importante: fratello che è ben diversa dalla parola fraternità»

Enrico aguzzò le orecchie. Se voleva parlare di fratelli cascava male. Lui non poteva vedere suo fratello più grande che voleva avere sempre l’ultima parola. Non avevano niente in comune.

«Allora partiamo dall’etimo di Fraternità dal latino fraternitas-fraternitatis. Affetto, accordo fraterno soprattutto fra persone che non sono fratelli. Dunque smettete di pensare alle vostre sorelle o fratelli. Per quello bisogna parlare dell’aggettivo fraterno dal latino fraternus che si riferisce al legame di sangue. La chiesa, chiaramente, ci invita a vivere in modo fraterno, da fratelli, però questa espressione può portare al conflitto perché la parola (come del resto tutte le parole) porta con sé il vissuto e tutte le emozioni dell’interlocutore e dell’ascoltatore»

Enrico era sempre più attento perché aveva un po’ a che fare con il suo problema.

«Se voi un giorno vorrete leggere l’Antico Testamento troverete subito delle grosse contraddizioni nei capitoli che hanno come protagonista la parola fraterno. D’altra parte noi stessi, in quanto esseri umani, siamo pieni di contraddizioni.

Ma veniamo al punto. Il primo omicida, se ci pensate fu un fratello, Caino. E Giuseppe ridotto in schiavitù dalla mano dei suoi fratelli? E chi fu il primo uomo a rubare un’eredità? Un fratello. Giacobbe che tradì Esaù. Tre esempi di fratellanza infranta nei quali neppure il valore del legame di sangue sembra essere prevalente, essenziale. Il significato della parola fraterno in questi casi non ha corrisposto alla realtà, al suo vero significato.

Enrico alzò la mano fremente. «Professore ma cosa ci vuoi dimostrare che non bisogna fidarsi di nessuno o secondo la religione cattolica solo di Gesù?»

 Don Romagnoli sorrise e in risposta cominciò a parlare di fraternità. «La fraternità Enrico e voi tutti è un cammino interiore che tutti noi dobbiamo fare per capire che qualunque persona ho di fronte rappresenta un fratello perché appartiene alla stessa famiglia umana». Poi il prete si avvicinò al lettore di CD e lo accese dicendo  «Lui ve lo spiegherà meglio di me cos’è la fraternità».

Le parole famose della canzone Il Pescatore di De Andrè si diffusero in classe. Enrico la conosceva bene quella canzone cantata mille volte con gli amici in segno di protesta, ma ora stava attentissimo alle parole. Quando la canzone finì il sacerdote spiegò; «L’uomo che raggiunge il vecchio sul mare dice: dammi il pane ho poco tempo e troppa fame» e poi chiede «dammi il vino ho sete e sono un assassino. Il vecchio non ha esitazioni perché non si guarda neppure intorno ma versa il vino e spezza il pane per chi dice che ha sete e fame. Il pescatore riconosce l’uomo come essere umano che chiede aiuto. Altri lo giudicheranno. Nel momento in cui i due spezzano il pane e bevono insieme sono fratelli. Ma Enrico non pensare al fatto che sono un prete e che la canzone possa alludere all’eucarestia. Non è così anche se molti danno questa versione. Quando i gendarmi domandano al vecchio dove è andato l’uomo in fuga il pescatore non risponde, sembra dormire. Molti dicono che l’assassino l’ha ammazzato ma anche se fosse vero niente toglie a quel gesto il valore di pura fraternità, umanità che ci salva. Ci sono domande?» tutti stavano zitti ancora assorti nella canzone e nella spiegazione. Il sacerdote riprese «Ho un po’ approfittato di voi, oggi, per portare come si dice, l’acqua al mio mulino, ma d’altra parte vorrete considerare che sono un prete (lo disse ridendo) però io spero che abbiate capito che le parole vanno usate con cura e che bisogna stare molto attenti al loro significato.

Il suono della campanella segnò la fine della lezione. Enrico si alzò e, trascinando i piedi come suo solito, andò verso Don Roma (così lo chiamavano fra di loro) e chiese «Senti Don ti posso parlare un minuto?».


PAOLO BARONI

Io sono la radice dell’albero delle idee, sono il rapsodo che raccoglie la stoffa di altri, che cuce, che unisce narrazioni e racconti a formare l’abito delle storie, delle idee e del pensiero. Io sono l’editor di un amalgama indipendente la cui essenza va oltre la somma di tutte le essenze, sono colui che compila per mettere ordine, per dare forma senza firmare, senza appropriarsene.
Come tutti i rapsodi sono esterno, fuori dal cerchio e per questo sono libero. Più libero di voi lettori che siete coinvolti, perché siete la meta, siete gli eredi delle storie scritte e raccontate e le replicherete, le moltiplicherete dentro e intorno a voi. Voi sarete fecondati da questa saga contaminante e diverrete per questo fecondatori.
Vi auguro di dare ordine alla vostra esperienza e di vincere il tempo.

È l’ora di iniziare. Lo facciamo incontrando alcuni dei principali co-autori di questa raccolta:
Ada Loriani, una giovane laureata in matematica colta e creativa.
Giovanni Bruni, un fisico che insegna all’Università di Bologna.
Luca un caro amico di Giovanni
Conoscerete anche Ipazia e molti altri attori-autori di questa raccolta di storie.
Non chiedetemi come sono venuto in possesso dei loro racconti, delle loro lettere e di ciò che hanno narrato.
Vi deve bastare sapere che ogni rapsodo è un entusiasta collezionista di idee.

LA PAROLA

Lettere in forma di dialogo. (Giovanni e Luca)

Milano 3 febbraio 1989
Caro Gianni,
Mi piace molto scambiare con te questi dialoghi a distanza.
Il dialogo non è una cosa leggera e tranquilla ma, come tutte le parole che iniziano con “dia”, dialogare significa cercare la verità attraverso il confronto e la contrapposizione, perché non si dialoga con chi è d’accordo con te ma con chi la pensa in maniera diversa, a volte opposta.
Questa volta abbiamo scelto di dialogare per scritto sulla tema della “parola”.
Inizio scrivendo che il “verbo”, traduzione del termine logos che si trova nella Bibbia, altri non è che il mezzo divino che mette in azione la forza creatrice di Dio. Il logos è il principio con il quale Dio esterna il creato da sé. L’altissimo ha dato vita all’universo attraverso la parola: Che la luce sia, ha ordinato, e la luce fu. La parola “era in principio” ed “era presso Dio”, essa è la sapienza con cui Dio ha compiuto la Creazione e che dà luogo alle Sue azioni. Nell’Eden Dio chiese ad Adamo di nominare ogni cosa e ogni animale, concedendogli di continuare la sua azione creatrice attraverso la parola che non fu quindi una conquista umana ma un dono divino. In seguito, l’uomo scelse il frutto della conoscenza, per questo la parola divenne anche strumento per mettere in relazione le cose e i fatti del mondo e dare ordine al pensiero.
Aspetto le tue considerazioni prima di addentrarmi nel campo del linguaggio.
Tuo aff.mo Luca

Bologna, 13 febbraio 1989
Amico mio, come si fa a non contraddirti? Logos è unione di parola e pensiero, una bivalenza che non si può scindere e che si attua non nella mente di Dio ma nel passaggio che un essere senziente compie dalla realtà percepita alla sua rappresentazione verbale. Per capire il mondo dobbiamo riflettere con il pensiero le relazioni fra gli oggetti e di conseguenza esprimere concetti attraverso relazioni linguistiche. Quindi quando noi descriviamo il mondo ci serviamo della sua immagine riflessa nel pensiero e la traduciamo, la comunichiamo, la rappresentiamo attraverso il linguaggio. Quando traduciamo per mezzo della parola il mondo che sta al di fuori di noi, mettiamo in rapporto (ratio) la realtà e la sua rappresentazione, cioè eseguiamo un ragionamento che ci trasporta dalla sfera dell’osservazione al mondo della ragione e della scoperta. La parola, Il logos è una conquista evolutiva degli esseri umani.
Con amicizia.
Giovanni

Milano 3 marzo 1989
Caro Gianni,
Bene parliamo della parola intesa come linguaggio, comunicazione del pensiero e delle idee. Io inizio citando l’Abate Joseph Antoine Touissant Dinouart, che scrisse “è bene parlare quando si abbia da dire qualcosa che valga più del silenzio”. E continuo con Wigtenstein il quale asserì che di fronte all’ineffabile è meglio tacere. Quando si vuole parlare o scrivere di argomenti che riguardano ad esempio l’etica, oppure il perché esiste il mondo, le parole non sono strumenti adatti, allora meglio tacere e cercare invece di mostrare. L’esempio, Gianni è la soluzione in qualche caso, non la parola. Come si fa a parlare o scrivere del perché siamo venuti al mondo, o di che cosa c’era un attimo prima del Big Bang? Come è possibile cercare una risposta alla domanda perché esiste il male? Per restare in ambito più terreno, come si fa a spiegare a parole il senso del piacere, del gusto? Non tutto, caro amico, si può descrivere. Le parole non sono sempre sufficienti a condurre gli argomenti a un livello scientifico e quindi oggettivo, sarebbero inganni, menzogne.
“È necessario per tutti noi coltivare il silenzio e circondarlo di una diga interiore”. Queste parole non sono state pronunciate da un mistico del deserto, ma sono il cuore della riflessione del cardinale Robert Sarah contenute nel suo libro, La forza del silenzio. Come mi piacerebbe Gianni che tu potessi apprezzare il silenzio e la preghiera! Lo so, tu sei spinto dal dubbio, dallo scetticismo e dalla ricerca di una verità nascosta nelle pieghe della ricerca umana. Ma non vedi che il mondo, cercando la verità per mezzo solo della logica e della ragione finisce con il piombare in una dimensione di incertezza angosciante?
Aspetto le tue considerazioni.
Con affetto
Luca

Bologna, 15 marzo 1989
Carissimo Luca,
È vero che il linguaggio è limitato e non riesce a cogliere l’intera essenza del mondo ma non per questo dobbiamo scegliere il silenzio. La via giusta è sempre la parola, la logica, il metodo scientifico anche quando non abbiamo tutti gli strumenti per raggiungere la conoscenza. Avvicinarsi alla verità delle cose è sempre meglio che stare fermi. Tu citi Dinouart. Considerando tutto quello che l’abate francese di bello ha scritto sulla dignità delle donne che non è poco, egli rimane una figura legata a concezioni pre illuministiche. Ha scritto che è meglio tacere perché è meno rischioso che parlare. E la dialettica? La conquista della conoscenza non avviene attraverso il confronto delle idee?  Certamente, parlando possiamo non riuscire a esprimere appieno il senso che, secondo te, Dio ha dato alle cose. Io ti rispondo che la parola è espressione dei fatti, della realtà e credo che anche quando i fatti non sono spiegabili, fare ipotesi, costruire teorie da verificare, cercare soluzioni è un compito irrinunciabile per l’essere umano. L’esercizio del pensiero è il modo per portarci verso il progresso, la nostra missione più alta.
Quindi, Luca, non il silenzio, ma la parola è la via. Tu hai pensato di fare forza alla tua tesi citando anche Wigtenstein e la sua affermazione “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”.  Caro Luca il filosofo viennese è stato un vero studioso del linguaggio e non si può, non si deve ridurlo al concetto “il silenzio è meglio”. Per questo grande studioso la parola è talmente potente che va usata con discernimento e soprattutto va accompagnata dalla consapevolezza comunicativa. Quando ti esprimi, cioè, devi avere ben chiaro di che cosa stai parlando e scegliere le parole adatte, come in un gioco di carte, dove puoi vincere o perdere a seconda di come usi le carte che hai in mano. Potremmo anche inserire in questo dialogo Bertrand Russell, che aveva ben chiaro che il linguaggio è strettamente legato alle informazioni che le cose del mondo ci hanno dato durante le nostre esperienze ma non desidero addentrarmi nel campo della filosofia del linguaggio che trovo per certi versi ostica e talvolta fine a se stessa. Preferisco allora rivolgermi a Jorge Luis Borges. Lo scrittore argentino ha affermato che la narrazione può trattare argomenti ineffabili servendosi della fantasia e della poesia per viaggiare nella dimensione sterminata e meravigliosa della mente. Il linguaggio è la gloria di questo viaggio e la capacità logica dell’uomo è il suo occhio immaginifico che consente lo slancio verso l’infinito. Il dubbio, Il punto interrogativo, la curiosità sono gli strumenti per innalzarci, gettare via i dogmi e svelare finalmente la meraviglia dell’universo. Leggi le labirintiche storie di Borges e conoscerai la stupefacente ampiezza della mente umana che si serve della parola, della logica, del confronto e dell’immaginazione per realizzare la multiforme, contorta ma entusiasmante esplorazione del mondo.
Per concludere ti allego una fotocopia di uno scritto che Ada, la nuova istitutrice di mia figlia Ipazia, ha preparato per lei: La storia dei nomi e delle parole. È un piccolo racconto che usa immaginazione e fantasia per stimolare la mente della mia bambina, un esempio che ritengo adatto per concludere la nostra discussione sulla parola.
Ti saluto e ti aspetto a un prossimo amichevole scambio di idee e opinioni.
Tuo Giovanni.

Ada
La storia dei nomi e delle parole

«Ipazia, oggi terminiamo la nostra conversazione con un antichissimo racconto.

Tanto tempo fa, gli uomini non comunicavano con le parole, ma con i gesti, con i movimenti del corpo, con lo sguardo e poco o niente con la voce. Le loro erano solo grida inarticolate, molto simili a quelle degli animali. Suoni emessi con la bocca e con il naso allo scopo di affermare primazia, per attirare l’attenzione, per protestare o per avvertire del pericolo. La maggior parte delle espressioni venivano eseguite con il corpo. Per indicare la vicinanza di animali se ne mimavano aspetto e movimento.
Un giorno un giovane cacciatore dalla mente particolarmente acuta, per comunicare con gli altri componenti della sua tribù quando i suoi gesti non potevano essere visti a causa della distanza o per l’oscurità, decise di emettere versi particolari per indicare la presenza di animali pericolosi o da cacciare. Fu una scelta indovinata. Presto quell’astuto cacciatore fu imitato dai suoi compagni e lo stratagemma divenne una consuetudine.
Passarono molti anni e gli uomini avevano imparato a nominare gli animali e anche a distinguere i maschi dalle femmine usando sillabe finali diverse.
Passarono molti e molti anni ancora, un giorno un giovane adulto fece un passo avanti nell’evoluzione comunicativa. Decise di esprimere la sua individualità. Scelse un verso, un grido di identità. Inventò per se stesso un appellativo formato da due sillabe, due vocali molto simili alla nostra “U” e una consonante gutturale simile alla “G” di “gatto”. Per semplicità quindi chiameremo questo giovane uomo GU-GU. GU-GU, ogni volta che voleva attirare l’attenzione su di sé pronunciava il suono del suo “nome”. La maggior parte dei suoi simili lo guardavano con indifferenza, non capivano quale fosse lo scopo di quel suo verso ripetitivo. Altri, invece mostravano interesse perché avevano intuito che c’era un’utilità in quel grido e crearono di imitarlo.
Anche la donna di GU-GU volle identificarsi e pensò fosse naturale aggiungere a parte del “nome” del suo uomo una sillaba più femminile. Inventò per se stessa il nome “GU-TA” che fu una pietra miliare nella storia dell’umanità.
Passarono molti anni, GU-GU e GU-TA ormai non c’erano più e nei villaggi degli uomini si sentivano nomi e parole sempre più raffinate. KA-TO, il capo di una tribù aveva inventato versi per indicare, oltre a tutti gli animali del territorio anche gli oggetti di uso comune.
Passarono molti anni ancora, un giorno un giovane uomo di nome BO-ZU, primo figlio di BO-TO e di TO-TA, sentì la necessità di comporre una frase intera. Si rivolse a “ZU-TA” la donna che viveva con lui e con i loro cinque figli e mise insieme la parola “Ta-ka-na” che indicava il cinghiale vivo e la parola “Ne-heb” che indicava il cibo pronto per essere mangiato. Con la mano aperta sul petto, disse: “BO-ZU Ta-ka-na”, poi puntando il dito verso la donna aggiunse: “ZU-TA Ne-heb”.
La donna lo guardò dapprima un po’ stranita, poi i suoi occhi si illuminarono, aveva intuito quello che l’uomo voleva dirle: «Io vado a caccia, catturerò un cinghiale, tu prepara il pranzo». Era nata la prima frase di senso compiuto.

«L’hai inventata te, questa storia, Ada?».
«Non è vera ma è verosimile, bambina mia».
«Bella. Però non mi piace tanto l’idea che le donne dovevano usare un nome derivato da quello dell’uomo».
«Ė così pure oggi, la moglie adotta il cognome di suo padre e poi, quando si sposa aggiunge quello del marito».
«Già, è così. Tu ti sposerai un giorno, Ada?
«Non lo so, amore, forse, o forse no, dipende».
«Da cosa dipende?».
«Dipende da… bè dipende e basta».
«Non è una risposta, Ada».
«Non si può rispondere a tutte le domande».
«Va bene, ho capito».
«Che cosa hai capito?».
«Non si può rispondere a tutte le domande, Ada».


ANITA MATTEELLI

LE PAROLE HANNO UN NOME  

Buona sera a voi gentile pubblico presente a questo primo Simposio sulla PAROLA. Mi presento, sono il presidente nonché, nell’occasione, moderatore di questo incontro ideato dai soci del Circolo “ Parlar bene”
Una brevissima introduzione per parlare appunto delle parole, tanto abusate da tutti e spesso a sproposito, senza pensare, alcune volte, al loro effetto. Le parole hanno un nome e soprattutto un contenuto che cambia a secondo dei riferimenti per cui viene usata, pertanto in questo Convegno si vuole esplicitare il vero significato della parola scelta per la discussione di questa sera, per il suo corretto uso.
Il relatore che mi è accanto in questo tavolo, è il socio rappresentante della parola scelta “Giustizia”
“Prego può iniziare”
“Grazie e buona sera a tutti gli intervenuti che vedo con piacere, numerosi. Come ha già anticipato nella presentazione il Presidente, io sono il rappresentante della parola “Giustizia.”
Entro subito nel merito premettendo che, la parola in questione è molto in uso in diverse situazioni, come tutti sappiamo, ritengo sia importantissima, che ne porta dietro innumerevoli altre nelle discussioni di cui è spesso la protagonista. “ad es.: la giustizia è uguale per tutti, consegnare alla Giustizia, intralciare la giustizia, vendere, prostituire la giustizia e infinite altre occasioni per citarla”
Prego signore con la mano alzata, mi dica:”
“ Scusi l’interruzione, ma è più forte di me, è un bel dire che la giustizia è uguale per tutti, dovrebbe! Ma non è così proprio per niente, spesso il suo valore è reso inconsistente per quante ingiustizie vengono perpetrate e, tante ne ho subite io stesso. proprio da coloro che promulgano leggi, da coloro che dovrebbero emettere giudizi, perfino dalle famiglie, nei posti di lavoro e così via. Mi scuso di nuovo con lei e con tutti per l’interruzione, sono stato inopportuno, il simposio ha un altro scopo, ripeto, è stato più forte di me, ma non siamo qui per lamentare iniquità, anche se stiamo ascoltando ciò che la parola significhi e come usarla a proposito…Grazie per la pazienza.”
Applauso del pubblico, bisbiglio generale.
Il moderatore interviene a sedare garbatamente la momentanea confusione e subito invita il socio rappresentante a proseguire.
“Grazie signore, non si preoccupi, capisco il suo intervento che non è proprio del tutto inopportuno, convengo che non sempre la giustizia è giusta, specialmente quando non è applicata con onestà, empatia e umanità da chi dovrebbe!
Ed ora proseguo la discussione, gli interventi saranno graditi alla fine, grazie;
Per prima cosa voglio precisare che questa parola ha un valore talmente alto e variegato che non è possibile esaurirne i vari significati che assume nelle diverse situazioni, in un solo incontro, né si ha il tempo per fare i tanti esempi, rimandando perciò, ai prossimi incontri.
La Giustizia è propria dell’uomo, in quanto egli solo ha la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, è una virtù prevalentemente sociale, assegnata alla politica sociale ed economica, che consiste nella volontà di riconoscere e rispettare diritti delle persone, attribuendo a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo ragione e secondo la legge, compreso quella morale, aggiungo soprattutto!
Mi consento una citazione del sommo poeta Dante nella Divina Commedia “Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca per non venir sanza consiglio a l’arco.”

         Coloro che hanno la giustizia in cuore non useranno armi per far valere i propri diritti.

Il simbolo e la personificazione della Giustizia, scritta con la G maiuscola, nell’iconografia è rappresentata come una donna dalla figura maestosa, con gli attributi della spada e della bilancia, di qui le espressioni “le bilance, la spada della Giustizia,” esposta in ogni tribunale, considerati il Tempio della Giustizia stessa.

         Esiste, secondo la chiesa, anche la Giustizia Divina, è infatti, una delle Virtù Cardinali, secondo la quale è Dio stesso che qualifica il comportamento degli uomini, che premia o punisce. Mi permetto di nuovo un’altra citazione di Dante “Giustizia mosse il mio alto Fattore”
Poiché il tempo è avaro, se non ci sono interventi, vi ringrazio per la partecipazione e per l’attenzione, spero di potervi incontrare nuovamente nei prossimi incontri che proseguiranno su questo argomento, dove per ognuno sarà possibile intervenire e magari raccontare proprie esperienze.”
Il Presidente ringrazia a sua volta il pubblico e il socio relatore e annuncia che questo simposio proseguirà nel tempo ancora con la parola Giustizia e con altre parole molto importanti e piene di significati che già annunciamo: AMORE, PACE, TERRA, CASA. sul tavolo prima dell’uscita, troverete gli opuscoli relativi, con le date dei prossimi incontri.


MILENA VOX

CITTÀ CHE VAI, PAROLE CHE TROVI

W la topa” leggevo sul vagone di un treno fermo nella stazione di Bari. – Viene sicuramente da Livorno – ho pensato – da noi questa parola non esiste e ancora oggi, dopo decenni vissuti a Livorno non mi richiama alla mente visioni erotiche o proibite. Invece, quando in piazza Grande ho sentito per la prima volta una signora dire al suo bambino – guarda i piccioni – ho provato un senso di imbarazzo e incredulità, visto che per noi tale espressione è l’equivalente di topa. Inveire urlando : u piccion’ d’ mammet è un’offesa mortale. Perciò da noi si chiamano colombi.

Altra espressione livornese colorita : il budello di tu ma’. (rinforzato da cane talvolta), a volte espressa  senza una reale volontà di offendere. Per me non significa niente, anche se so bene che non trattasi di  complimento aggraziato, ma rivolgersi a Bari in una contesa verbale con : chedda zocchl d’ mammt  può provocare reazioni incontrollate e violente. Riflettendo, mi sembra che i nostri improperi siano più grevi, ma forse è solo perché fanno parte del mio vissuto.

A volte gli alunni a scuola chiedevano giustizia: prof., offendano le mamme! Ed io: perché quante ne hai?

Dunque siamo tutti italiani, ma ogni luogo ha le sue tradizioni, i suoi modi dire, le sue espressioni caratteristiche, come si sa.

Appena giunta a Livorno, mi sono sentita molto a disagio, non solo per fraseologia e vocaboli diversi, ma per la musicalità stessa della lingua. Quando sono tornata a Bari dopo un po’ di tempo, ho finalmente capito perché ci prendevano in giro per la nostra cadenza, di cui non ho avuto consapevolezza fintanto che non mi sono immersa in una realtà completamente nuova. Era vero dunque, le a tendevano alla e, la e e la o pronunciate chiuse.

Parole italiane, ma con significato diverso che solo una lunga consuetudine permette di fare proprie. Ad esempio: mi da noia, per noi è mi da fastidio; c’è riscontro, per noi c’è corrente. L’aggettivo ignorante lo utilizziamo nella sua prima accezione, di persona che non sa, non ha studiato. A Livorno indica essenzialmente maleducato.

Difficile tradurre : fa’ vaini con una espressione simile, “si metta a ceccia” tanto per accennare soltanto alle infinite varianti proprie del linguaggio del luogo in cui si vive. “La tal signora è tornata in via. . “ ma perché dov’era andata? C’era anche prima? Non capivo.

Penso che il dialetto sia molto più ricco di espressioni colorite e intraducibili in un italiano corrente. Bisogna esserci nati, vale per tutti dialetti e i vernacoli del mondo ovviamente. Prendiamo ad esempio la parola : ndrapcuà, significa inciampare ma non c’è già il senso dell’inciampo nelle prime sillabe ndra . . ?

Di fronte a casa mia abitava una signora siciliana che parlava fluidamente un misto di siciliano e livornese. Era assolutamente adorabile ed io mi incantavo ad ascoltarla. Io invece ho parlato pochissimo i primi due anni, vuoi per il cambiamento di ambiente, di linguaggio, dello shock del matrimonio . . . – N’ave’, paura, mi dicono i miei figli ( nati a Livorno, si sentono livornesi a pieno titolo)– poi ti sei rifatta alla grande! –

Giunti a Livorno dopo le nozze il mio defunto ex marito, (che Dio l’abbia in pace), dopo il suo primo giorno di lavoro mi disse: – Ma lo sai cosa mi hanno chiesto in ufficio? Cosa? Mi hanno chiesto com’è! –  Ma sul serio si può fare una domanda così intima e imbarazzante? – pensando noi a tutt’altro significato! Ridicolo e buffo misunderstanding!!!

E dietro le parole le persone, che esprimono il sentire e la storia di un popolo. Recatami da una signora per fare delle punture perchè anemica in gravidanza, dopo avermi invitata a mettermi a ceccia, mi raccontò con grande disinvoltura (era la prima volta che mi vedeva): – Quando mi sono sposata, il mi’ marito sette volte al giorno, sette volte!! Mi toccò andare dal ginecologo che mi disse – suo marito è una bestia! – Ero allibita che mi parlasse di cose così riservate, nemmeno fra sorelle parliamo di abitudini sessuali così personali, ma è la schiettezza e disinvoltura del popolo livornese che ora mi fa sorridere e che mi piace molto.

Anche l’irriverenza e lo scarso timore reverenziale mi colpirono, il sentirsi liberi di dire quello che si pensa senza considerare lo status sociale o i titoli di qualcuno. Suonava di grande libertà, mentre a Bari, non so se sia ancora così, l’essere figlio di. . , essere avvocato, dottore, giudice ecc. incuteva immediata deferenza e un rispetto a prescindere.

Fra Bari e Livorno c’è sempre stato un filo diretto, quando si tardava ad un appuntamento si chiedeva ironicamente: – Da dove vieni, da Livorno? o per indicare una improbabile destinazione lontana: – Ma dove vai? A Livorno? Ora non si possono fare più queste domande, in un’ora con l’aereo ci siamo.

Quando nonna Filomena seppe che mi sarei trasferita a Livorno, intonò: – Io voglio ritornare alla mi’ Livorno dove tutte le ragazze me la danno – poi si interruppe e maliziosamente mi chiese: – Che cosa hai capito? – Cosa avevo capito? Non ne ero sicura. E continuava : – Prima la buona sera e poi il buongiorno.- Spiegava: mio fratello ha fatto il soldato di mare a Livorno – .

Adoro l’anima popolare e anche se i primi anni sono stati molto difficili, mi sento ricca e felice di appartenere ormai a due culture diverse che posso comprendere nei loro pregi e difetti.


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