Gruppo scrittura Scarabeus 2019-20
Decimo incontro
ARTURO FALASCHI
La catena.
Spesso, nei miei turni di lavoro alla Solvay, la catena era un incubo; specialmente nei turni di notte quando il capoturno mi chiedeva non so quante volte:
“Ci sei stato alla catena?”
C’ero stato, sempre controvoglia. Non era un bel posto quello, specialmente di notte. Un locale enorme, lungo, male illuminato, quasi senza finestre verso l’esterno, deserto e rumoroso, l’odore dell’ammoniaca e la presenza non percepita dell’anidride carbonica.
Quel locale al primo piano e la catena facevano da raccordo tra il reparto filtri, al piano superiore e il reparto forni a piano terra.
Accadeva questo: il passo più importante nella produzione della soda era ed è la formazione del bicarbonato che avveniva in certe colonne sotto forma di piccoli cristalli sospesi in acqua ammoniacale. Si presentava come un latte, filtrato da sette o ottto enormi filtri che si presentavano come grossi tamburi lentamente ruotanti. Avevano un potere ipnotizzante se li guardavi a lungo. Quei cilindri erano ricoperti di bicarbonato, bianchissimo e umido che, raschiato via, cadeva al piano sottostante: la catena appunto, che lo distribuiva ai forni del piano terra. Qui, alla temperatura di circa 270°, il bicarbonato si decomponeva in carbonato (la soda) e anidride carbonica che veniva raccolta e riutilizzata.
Ma cos’era la catena? Era una lunga canala di acciaio stesa sul pavimento a formare una pista, come quella per i ciclisti, per intenderci. Due rettilinei di una cinquantina di metri e due curve di raccordo, semicircolari, in cima e in fondo. All’interno della canala scorreva la catena che era veramente una grossa catena che trascinava, nel suo lento andare, una serie di pale verticali che, a loro volta, trascinavano il bicarbonato che cadeva nella catena dai soprastanti filtri. Cadeva su uno dei due rettilinei mentre, nel rettilineo opposto, alcune buche sul fondo della canala facevano cadere il bicarbonato nei forni.
La catena era mossa da una grossa ruota dentata azionata da un enorme motore elettrico.
Naturalmente, il bicarbonato umido offriva una notevole resistenza al moto e la resistenza era tanto maggiore quanto maggiore era l’umidità.
Lo sforzo del motore era indicato da un grande amperometro che si incontrava appena si entrava nel locale. Normalmente indicava un assorbimento elettrico tra i 60 e 90 ampere (che non è cosa da ridere) ma si sapeva che, se avesse toccato i 100 ampere, dopo pochi minuti il motore si sarebbe fermato.
Da qui il grande gioco di prestigio: i filtri non dovevano scaricare troppo e i forni non dovevano ricevere troppo poco.
Non era un gioco facile perché i filtri dovevano per forza smaltire tutto il bicarbonato che arrivava, salvo una piccola possibilità di fare scorta e i forni avevano un limite nella loro capacità di decomporre il bicarbonato ed evaporare l’umidità che conteneva.
Anche perché si trattava di gestire qualcosa come 50 tonnellate l’ora di materiale.
Quella che giocava era l’umidità: sia perché il materiale umido era più difficile da trascinare, sia perché l’umidità impegnava sempre di più i forni. E l’umidità dipendeva dal buon lavoro dei filtri ma anche dalla natura dei cristalli di bicarbonato.
Un giochino maledettamente complesso, come si vede.
E se le cose non andavano per il verso giusto? Se i forni ricevevano meno di quanto i filtri scaricavano, il materiale si accumulava nella catena facendo più giri della pista e lo sforzo del motore aumentava.
Quando la situazione cominciava ad essere grave, si deviava lo scarico di un filtro o di due filtri sul pavimento del locale della catena sperando in tempi migliori, quando sarebbe stato possibile un recupero con tanto di badile e olio di gomiti. Intanto però il materiale così accumulato rilasciava nell’ambiente umidità, ammoniaca e anidride carbonica dovuta alla lenta decomposizione del bicarbonato umido. L’aria diventava pesante mentre la presenza presso la catena era sempre più necessaria.
Il peggio avveniva quando, malgrado tutti gli accorgimenti o a causa di accorgimenti insufficienti, si toccavano i famosi 100 ampere e il motore si fermava. Il bicarbonato fermo diventata un blocco e il motore si rifiutava di ripartire.
Allora era necessario dar subito di mano ai badili e, mentre i filtri continuavano a scaricare le loro quaranta o cinquanta tonnellate sul pavimento, svuotare la canala e farlo in fretta per poter ripartire.
Lavorare così duramente in quell’atmosfera che sempre peggiorava era un supplizio. Per mia fortuna io ero solo spettatore, anche se dirigente del lavoro, ma ricordo le facce stravolte di quegli operai quando, a lavoro finito, si accasciavano ovunque potessero.
Poi, a calma ristabilita, si trattava di spalare le tonnellate e tonnellate accumulate sul pavimento. Ma quello era compito del “servizio esterno” un gruppo di manovali che non dipendevano direttamente dalla Solvay. Quelli potevano anche morire.
Questa era la catena. Non era la sola situazione critica nel lavoro in sodiera. C’erano altre catene, senza anelli, senza pista e senza i 100 ampere. Ma con lo stesso disagio, la stessa fatica, la stessa aria malsana, la stessa ansia e preoccupazione.
E c’era, e forse c’è ancora, la grande catena che legava tutti noi a quella situazione qualche volta invivibile. La grande catena della necessità. La catena che ci teneva lontani dal letto in notti interminabili, che accorciava irrimediabilmente la vita agli operai addetti, che provocava e provoca migliaia di morti sconosciuti sui posti di lavoro.
Un pò spinta dalla necessità, molto di più dallo sfrenato profitto. Motori che troppo spesso superano i cento ampere.
Allora: mano ai badili, quelli del “servizio esterno”
La catena 2. (L’altra catena)
La catena scende dalla chiara luce del sole giù giù verso il fondo dove la luce si fa sempre più tenue fino quasi a sparire. Nel fondo, la materia oltre la quale né la catena né la luce possono penetrare: opacità.
L’ancora è là, stretta tra lo scoglio e la catena, tra la materia e la Necessità. Il movimento che le è consentito è povera cosa. Poco più che dirigere lo sguardo: verso il fondo che la circonda e qualche raro pesce che guizza o in alto, verso la luce che scende e la catena che sale.
La catena è vincolo che costringe ed è traccia che, anello dopo anello, indica la via per la risalita. Indica la via verso la luce, verso il bello e il Bene, la gioia e lo splendore di un sole glorioso.
Lei stessa, la catena, quel vincolo necessario, è la via del Bene, è parte del Bene stesso.
In questo senso, la libertà dell’ancora, il suo poter abbandonare la catena che la vincola, è il Male; la libertà, l’illusione della libertà è il perdersi senza meta nella semi oscurità del fondo. È illudersi che il Bene sia racchiuso nel rapido guizzare del pesce.
L’ancora fedele sa che la catena è il legame che la collega all’alto, da dove proviene quella luce che rende visibile ogni cosa, che fa sì che ogni cosa si riveli e sia. Quella luce che, avvolgendo tutto fa di tutto una sola cosa.
Allora attende, l’ancora fedele al suo ruolo; l’occhio rivolto verso l’alto da cui la luce cala, attende il momento in cui, come sempre è accaduto e sempre accadrà, la catena sarà avvolta e l’ancora salirà allo splendore senza fine del pieno sole.
LUCIANA RUSSO
Riflessioni
Sono già passate due settimane in quarantena ma ce ne sono molto di più davanti. Mi dispero, non so, se ce la farò. La mattina mi alzo e faccio le cose con un certo brio almeno all’inizio. Yoga, colazione e poi esco a prendere il giornale. Ah dimenticavo sin dalla mattina accendo la radio a palla. Dopo la lettura del quotidiano intravedo qualcosa da pulire ma poca cosa perché ho già pulito tutto. Un vero svago da questo grigiore consiste nel preparare i pranzi e le cene. Ogni giorno faccio qualcosa di diverso e il momento del pranzo rappresenta una rottura nel quotidiano. In quel momento capisco i vecchi ricoverati negli ospizi che aspettano il momento del pasto con trepidazione e parlano per ore prima di cosa mangeranno e dopo di quello che hanno mangiato. E’ proprio vero devi sempre fare esperienza se vuoi capire l’altro o la nuova situazione. Quando andavo a trovare una vecchia zia ricoverata in una casa di cura mi ricordo che sbuffavo sempre quando lei cominciava a parlare di cibo. Ora la capisco. Il pomeriggio è dedicato alle telefonate o alle video chiamate. Con le amiche ci diciamo sempre di non fare la solita telefonata e che è meglio videochiamarsi così ci vediamo tutte insieme contemporaneamente ed è sicuramente più bello. Qualcuna fa persino l’aperitivo. Penso che milioni di persone affrontino lo stesso rito più o meno alla stessa ora. Sembra che qualcuno ci stia manovrando come marionette come quando tutti insieme ci precipitiamo sul balcone per cantare o applaudire anche se la giornata ci ha regalato la cronaca di tante vittime. Mi viene a mente una scimmietta vista in un circo tanti anni fa che a comando eseguiva gli esercizi. Questa volta però le scimmiette siamo noi e chi ci comanda è una cosa piccolissima e invisibile ma capace di cambiarci nel profondo. Oggi una delle mie amiche mi ha inviato una foto di uno spettacolo a cui avevamo partecipato. Ma quando? Sicuramente due mesi fa ma sembra che siano passati tanti anni. Uscivamo, ridevamo e se la serata non andava come previsto erano ore di lamentele. Non sapevamo che fra tutti gli amici presenti c’era anche quel qualcuno invisibile, non invitato. Forse ci guardava da lontano e scuoteva la testa sogghignando. Già sapeva che fine avremo fatto. Nelle mie lunghe serate quotidiane avverto questa presenza maligna che mi ha allontanato da tutti. È lei che mi dice cosa è permesso e cosa no. È lei che mi tiene al guinzaglio e quando vorrà allenterà la catena.
Nonostante questi pensieri sinistri a volte mi scuoto e guardo dalla finestra la natura in fiore. Siamo in primavera e respirando l’aria tiepida so che un giorno potrò goderne fuori, al mare o in campagna con altre persone. Alla radio tutti ripetono che siamo in guerra. Il mio sguardo copre tutti i giardini e una pineta che circondano la casa dove vivo. Non mi sembra di stare in guerra. Non sento il rumore delle bombe che schiantandosi al suolo facevano impazzire di terrore mia madre. Non vedo case distrutte. Di quale guerra parlano?
In fin dei conti io mangio tutti i giorni. Mi siedo sul divano e leggo quello che mi va. Ma forse la guerra moderna è questa forza maligna che è sempre presente e controlla o finirà per controllare tutti i miei spostamenti. Mi siede accanto e mi sussurra all’orecchio che è per il mio bene che una app creata appositamente entrerà in ogni angolo della mia vita. D’altro canto noi le abbiamo permesso di esserci avendo rotto tutti gli equilibri del pianeta. Non so perché la guerra che stiamo vivendo mi fa pensare al mito di Pandora. Questa bellissima donna aveva ricevuto da Zeus per le sue nozze un vaso meraviglioso con l’ordine di custodirlo e di non aprirlo mai. Ma un giorno Pandora vinta dalla curiosità aprì il vaso da cui uscirono tutti mali del mondo (Vecchiaia, malattia odio, menzogna, avidità, etc..) che si abbatterono su tutti gli uomini. Sul fondo del vaso rimase solo la speranza che uscì per ultima per alleviare la sofferenza che questi mali portavano all’uomo. Oggi dal vaso di Pandora è uscito di tutto fino a sconquassare le fondamenta del nostro universo.
Però io mi aggrappo sempre a quella ultima speranza. La speranza di un cambiamento profondo che ci faccia essere diversi quando ritorneremo alla così detta normalità. Un po’ già lo siamo se non altro per il valore della solidarietà che mai come oggi abbiamo riscoperto ma saremo in grado di risanare la nostra casa, il nostro pianeta cioè potremo richiudere il vaso di Pandora?
NADIA PAOLACCI
Vincoli e catene
Era una di quelle mattinate dove tutto sembra bello. Libera dal servizio di controllo del territorio, di solito come capo pattuglia a bordo di una vettura della P.S., mi ero svegliata di buon umore, e la prima cosa che ho fatto era stata quella di affacciarmi per vedere che giornata si stava preannunciando.
La primavera era già iniziata, e le tiepide folate di una leggera brezza mattutina, diffondevano per ogni dove il profumo dei fiori e delle piante che erano sbocciate .
Era la mattina adatta per stare in mezzo alla gente, osservare come si erano vestite, sentire le loro chiacchiere.
Avevo deciso, sarei andata al mercato del venerdì, anche se il sovraffollamento non mi andava troppo a genio, in alcuni momenti era veramente troppo, specialmente davanti alle bancarelle che avevano della buona merce a prezzi contenuti.
Eccomi a camminare avanti e indietro lungo il filare dei venditori, come decine e decine di altre donne, con alcune che si trascinavano dietro mariti svogliati e disattenti.
Un folto gruppo di curiose si accalcava davanti ad una mostra di vestiti estivi, sparpagliati su un vasto banco. Per il timore di farsi scappare qualche pregiato capo di abbigliamento, quelle in prima fila sceglievano con cura, mentre molte altre, che non avevano la stessa possibilità, allungavano una mano tra la calca per prendere un vestito qualsiasi e valutarlo.
Ero un po’ in disparte perché sentirmi spingere più volte mi dava veramente fastidio.
Osservavo tra l’incuriosita e il divertita, quelle mani che con rapidità, si facevano largo tra il muro compatto di quelle in prima fila, disposte come una barricata umana.
Forse per una deformazione professionale, seguivo più l’andirivieni delle mani, che la merce esposta. Una mano, molto rapidamente, si era infilata in una borsetta, che incautamente una signora teneva aperta. Ne era uscita dopo pochi attimi tenendo ben stretto un portafoglio.
Ho messo una mano sulla spalla della ragazza che teneva in mano il portafoglio. Senza dare nell’occhio, mi sono qualificata, e pacatamente le ho detto di seguirmi. Meglio evitare qualsiasi storia ad alta voce. Certe situazioni possono sfuggire di mano, con conseguenze imprevedibili.
Le ho tolto di mano l’oggetto del furto, e tenendola per un braccio, mi sono guardata intorno per scorgere qualche collega, al quale affidarla. Al momento nessuno in vista. Ne ho approfittato per osservarla meglio.
Niente di particolare, salvo lo sguardo severo che le induriva il volto.
<< Ti sei resa conto di quello che hai fatto? >> dissi << Ti sembra giusto rubare? >>
La risposta uscì dalle sue labbra dura come il suo sguardo : << Certo che lo so, ma non mi importa nulla degli altri. Non avevo soldi e volevo comprarmi qualcosa pure io. Li ho presi dove potevo trovarli, come ho fatto altre volte>>
Nessuna nota anche veloce di pentimento.
<< Ma chi ti ha insegnato a comportarti così ? >>
La risata sonora fu l’inizio della risposta : << Chi mi ha insegnato ? Nessuno! Ho fatto tutto da sola un po’ per volta! >>
<< Ma i tuoi genitori non ti hanno insegnato a comportarti onestamente? >>
<< I miei genitori… buoni quelli, avevano altre cose da fare che seguire me. E allora mi sono arrangiata da sola. Hai presente una città, dove la delinquenza è il pane quotidiano? Decine di ragazzi e ragazze come me sono abbandonai a loro stessi. Giorno dopo giorno si impara nelle bettole, nelle strade strette e puzzolenti, nelle piazze regno di persone malfamate.
Prima si guarda e si capisce come si comportano gli altri. Si prova a rubare qualcosa in una bottega, nulla di costoso. Se ti scoprono, al massimo prendi un calcio nel didietro, e tutto finisce li. Ma intanto hai capito dove hai sbagliato, e la volta successiva sei più esperta. Poi si passa a qualcosa di più interessante, rubare una bicicletta e rivenderla per pochi spiccioli. Ne raggranelli pochi, e allora ci vuole qualcosa di meglio per fare denari rapidamente. Perché io non posso avere gli occhiali da sole, come quelli che hai tu? Per comprarli devo avere parecchi soldi, e li prendo dove li trovo. Ora sono nella fase dei borseggi, ma presto passerò allo smercio di stupefacenti. Li si che si guadagna bene e in fretta! >>
<<Ma non ti senti incatenata a questo sistema di vivere? Non hai voglia di cambiare?>>
<< Io incatenata? No bella mia, sono libera come l’aria. Se mi va di dormire lo faccio, così come se ho voglia di starmene la sole, di guardare le vetrine, di lavorare come stamani. Sei tu che sei legata a una corta catena, che ti impedisce di muoverti come vorresti, perché sei schiava delle regole che il tuo mondo ti ha imposto. Il mio mondo è diverso dal tuo e mi sta bene così>>.
Una macchina della P.S. si stava avvicinando.
PAOLO BARONI
Catene
Martina è chiusa in casa. come tutti. L’ennesima pandemia sta dilagando là fuori. Le scuole sono chiuse da un mese, le lezioni si svolgono a distanza per mezzo degli strumenti che ogni alunno possiede: smartphone, tablet, computer da tavolo, portatili. Oggi è la volta del compito di italiano. La prof ha assegnato un titolo emblematico e simbolico: catene.
Martina ha poco più di un’ora per scrivere e spedire l’elaborato nella casella di posta dedicata alla sua classe. Gli alunni possono spulciare ogni libro che hanno in casa, o che si trova in rete, possono persino consultare wikipedia, ma il copia e incolla è assolutamente proibito. I testi degli elaborati consegnati saranno scansionati da un programma ad hoc che li confronterà con una mole immensa di documenti archiviati nel database mondiale della cultura. Lo scibile umano è da anni a disposizione sulla rete ma si può solo consultare e citare, non è ammesso copiare. Martina lo sa. Si possono citare fra virgolette frasi o pensieri altrui, ma non è concesso barare e riportare frasi di altri come fossero proprie.
“Che razza di titolo pensa la ragazza Catene. C’è sicuramente un riferimento alla situazione di ognuno di noi che siamo relegati nelle nostre prigioni domestiche, incatenati come prigionieri nelle nostre moderne celle confortevoli che in fondo limitano la libertà di movimento come quelle di una fortezza medievale.
Martina avvicina la tastiera del computer e comincia a scrivere.
Ognuno di noi ha la propria catena legata alla caviglia. Lunga quanto basta per espletare i bisogni quotidiani, per muoversi nell’ambito delle nostre abitazioni. Per affacciarsi dai balconi o alle finestre e dare il ben tornato al mattino o per sussurrare un arrivederci alla luce del giorno quando arriva la notte. Ma non possiamo uscire. le nostre catene ce lo impediscono La spesa ci viene recapitata a domicilio dall’efficiente servizio statale di consegna. Ogni nostro bisogno è soddisfatto dallo stato così previdente e sollecito.
“Catene pensa ancora Martina – ma catene sono anche i collegamenti che connettono tutti gli esseri umani fra loro”. La ragazza continua a scrivere.
Noi non siamo solo legati ai muri di casa, siamo anche connessi gli uni agli altri. Le nostre catene non sono solo costrizione, esse sono unione. Ogni cosa su questa terra è vita comune. Siamo tutti uniti in una rete mondiale che ci rende un unico essere pulsante e vivo. Ci ammaliamo insieme e guariamo insieme. Comunichiamo, ci scambiamo i messaggi, le foto, gli scritti, i video delle nostre giornate, quelle belle e quelle brutte, le paure e le speranze, le gioie e i dolori. Ecco che le catene ci fanno valicare i confini domestici e ci donano un respiro di intesa. I vincoli si trasformano in connessioni e cancellano la nostra solitudine.
Martina rilegge lentamente quanto ha scritto. Non è soddisfatta. Le sembra che il contenuto sia retorico e scontato. Catene intese come impedimento e catene considerate come unione. “Non è un po’ banale?”, si chiede.
La ragazza volge lo sguardo verso la parte dello schermo dove a a turno i suoi compagni sono visualizzati nell’atto di scrivere. Ognuno nella propria cameretta o sul tavolo del salotto, intenti a svolgere il tema assegnato. “Che cosa scriveranno? – si chiede – Quali saranno le catene descritte nei loro temi?”
È allora che nella mente di Martina sorge un’idea. Un pensiero sottile piano piano si fa strada: “Le nostre catene – pensa – non ci tengono legati a qualcosa, sono avvolte attorno a noi stessi.
Guarda l’orologio. Ha solo quindici minuti di tempo. Comincia a scrivere di getto.
Ma le catene veramente pericolose, sono le più sottili, invisibili e le più resistenti. Esse ci avvolgono la mente e ci impediscono di procedere verso il vero progresso.
Siamo noi, è il nostro comportamento che ci incatena, è la nostra mentalità che non mostra alcun riguardo per la vita, sono le nostre abitudini la catena più nociva, quella che ci fa vivere secondo priorità egoistiche, insolenti. Noi non portiamo rispetto verso la Terra, la natura, siamo irresponsabili verso il clima. Dovremmo averlo capito da anni. Da quando nel 2020 è piombata sull’umanità la pandemia del Covid 19 avremmo dovuto capire che era venuto il momento di rompere le catene del nostro comportamento irresponsabile. Invece abbiamo continuato a cercare il profitto senza curarci dell’ambiente, abbiamo continuato a depredare i mari, a inquinare i fiumi, a contaminare l’aria in ragione della produzione e del benessere. A ignorare la povertà, quella vera, quella che uccide, ad abbandonare i deboli, a moltiplicare i nazionalismi che allontanano, a ignorare i muri che dividono, le brame che avviliscono, a perpetrare sprechi ed egoismo.
Una volta che la pandemia scomparirà si ricomincerà, come sempre. L’animale uomo è il peggiore nemico dell’umanità. Colui che ha forgiato la catena della sua disgrazia.
Martina non ha il tempo per rileggere. Il tempo è scaduto. Preme il bottone di invio.
Fuori, proprio sotto casa sua, il lamento stridulo di una sirena sovrasta il suono amichevole della campanella che segna la fine delle lezioni. Sul monitor appare la scritta #restateacasa.
Anita Matteelli
Guerra invisibile
Ogni mattina
avvolta nel tepore del piumone,
mi sveglio stiracchiandomi
con una sensazione piacevole,
lasciata probabilmente da un
bel sogno che ha cancellato
le preoccupazioni che avevo
prima di addormentarmi.
Guardo la sveglia, decido che
sto troppo bene abbracciata
dal letto, decido di restarci
ancora un po’.
Accendo la radio per ascoltare
le ultime notizie di guerra,
si, proprio così, di guerra.
Ogni parte del mondo è stato invaso
non da eserciti di soldati,
ma da un nemico subdolo, invisibile,
chiamato Corona virus, per la
sua struttura appunto che ricorda
una corona.
Un nemico spietato, imprevedibile,
di difficile contraccolpo, non aspettato,
senza dichiarazioni preventive,
un nemico che ci toglie la libertà,
che ci costringe a stare chiusi in casa,
che ci impedisce quanto di più bello e
e confortante può esserci, gli abbracci,
i baci, le carezze,
tra innamorati, tra genitori e figli,
tra amici, gesti che vengono direttamente
dal cuore e che, ora, sono considerati
i peggiori nemici, perché questo covis 19,
com’è chiamato “affettuosamente” questo
micidiale virus, ci può contagiare proprio
per il contatto che richiedono questi gesti
tenerissimi.
Quindi è severamente proibito,
darne e riceverne e, dei quali tutti ne sentiamo
la mancanza e ne ricordiamo la bellezza
e l’importanza che avrebbero proprio in
questo momento, come placebo
per tristezza e paure, perché siamo
tanto spaventati.
È una guerra che ci fa paura e sconforta
perché sconosciuta, che incatena
fisicamente e psicologicamente,
con una catena corta, corta, che oltre la
libertà ci toglie anche il respiro.
In questo situazione obbligata,
cerchiamo di confortarci l’uno
con l’altro, abbiamo in questi tempi
tanto duri, una piccola grande
fortuna, la tecnologia che ci
permette almeno, di mantenere i
contatti tra parenti e amici, una
consolazione che ci tiene ancora in piedi.
Ci fa paura perché incatena con la stessa
catena corta, alle loro pesanti
responsabilità schiere di medici,
di infermieri, di ricercatori, di politici,
autotrasportatori, volontari, farmacisti,
commercianti, che ci garantiscono il cibo,
che, stremati rasentano l’impossibile
con tenacia eroica e grande, angelica umanità.
Mentre noi, reclusi, incatenati invece,
a giorni di nulla, inchiodati alla TV, alla
lettura di quasi inutili messaggi, spesso
fasulli, impotenti, scalpitanti e anche con
senso di colpa verso chi, invece, può uscire
dalle quattro mura, rischiando e anche
perdendo la vita per salvare la nostra,
desolati quando non ci sono riusciti, perché
quel mostro beffardo, li ha traditi fregandosi
della loro accanita battaglia, del loro sudore,
dentro a quelle tute e scafandri per auto difendersi.
La positività, la fede, la speranza, stanno
perdendo la baldanza in coloro
che sempre avevano nell’animo.
Ci fa paura perché ha invaso tutto
il mondo, perché non se ne conosce bene
la natura, la durata, la cura, il vaccino
salvifico anche per il futuro.
Ci fa paura perché ci toglie tutte le
certezze che credevamo di avere,
sentendoci padreterni.
Questa guerra del nemico invisibile sembra
ordita da un comandante superiore,
proprio per far riflettere, per invitarci a fare
dei passi indietro, per mitigare la nostra
presunzione, per ché si torni ad apprezzare
di nuovo, ogni piccola e nello stesso tempo
grande cosa come gli affetti, salute,
lo splendore della natura, che continua
anche in questa primavera ad essere
la meraviglia di sempre, nonostante
tutto il male ricevuto da noi, nonostante
la guerra che ci affligge, ma che non tocca lei.
La speranza deve restare in ognuno di noi
rinnovato, che, quando tutto questo buio finirà,
la luce splenderà più forte nei nostri animi.
Sarà faticoso riprendere la vita, come in
ogni dopo guerra, ma ci troverà più uniti,
più consapevoli che ciò che serve davvero
è la forza della vita, l’Amore reciproco,
il rispetto, la solidarietà sentendoci
fratelli, quelli che si amano.
Auspico con speranza, che i nostri
risvegli al mattino, ritornino ad essere
pieni di voglia di iniziare ogni nuovo
giorno pieni di entusiasmo e curiosità
da godere, con stupore, meraviglia e poesia
che questo anno 2020, si possa ricordare
non solo con l’orrore di come è iniziato,
ma come il punto di ripartenza di come è finito:
“in un mondo migliorato.”
MILENA VOX
Nonna Filomena
“Ti voglio bene perché ti chiami come me!” Me lo ripeteva spesso nonna Filomena, ne ero gratificata ed orgogliosa.
“Quando morirò, piangerai?” Più difficile proiettarsi in questa luttuosa eventualità, troppo lontana da me bambina; tuttavia mi frugavo alla ricerca di lacrime che non affioravano, ma poi un luccicore insperato faceva brillare i miei occhi e Filomena era contenta.
Filomena, una forza della natura, matriarca generosa e ingombrante, coraggiosa, intuitiva, invadente.
Aveva perso il babbo, ferroviere, quando era ancora una bambina, una sua zia benestante si era presa cura di lei e la portava con sé a teatro, intrattenimento che le avrebbe aperto la mente, lei che aveva studiato solo fino alla terza elementare, e determinato le scelte che avrebbe fatto in seguito per i suoi figli.
Quando conobbe nonno Nicola non le piacque e lo respinse, aveva sedici anni più di lei, ma lui non si perse d’animo: un giorno la baciò impetuosamente e nel trasporto di quel bacio rubato le staccò un orecchino. Fu questo irruente e appassionato gesto a infrangere la sua ritrosia e lo sposò.
Vivevamo in un grande appartamento a un piano fatto costruire dal nonno che era un imprenditore insieme ai suoi dieci fratelli. I soldi non mancavano, tutti i fratelli erano benestanti e grazie al loro lavoro proprietari di vari immobili. Il nonno aveva anche in appalto la consegna di valori bollati che consegnava nei paesi limitrofi. Raccontava di essere stato una volta assalito lungo la via da banditi, ma se l’era cavata dicendo loro che il “padrone” era sul carro che seguiva.
Sfortunatamente, nella sua maturità fu colpito da ictus, per cui perse forza nelle gambe e camminava a stento, sorretto dai suoi familiari. Le sue rendite permisero alla famiglia di andare avanti senza problemi e di sopravvivere alla guerra durante la quale vendette molte delle sue proprietà.
Nonna Filomena non si perse d’animo, continuò la sua vita dedita alla famiglia e ai suoi figli dei quali aveva già deciso l’avvenire…
I suoi figli avrebbero dovuto studiare, laurearsi, farsi una posizione, promuoversi socialmente. Niente e nessuno avrebbe intralciato i suoi progetti! Così quando mio padre si innamorò di una sua coetanea che frequentava la parrocchia, Filomena ne ebbe sentore e ideò uno stratagemma: si travestì da uomo e sorprese i due fedifraghi nel giardino Garibaldi, a due passi da casa, dove i due si davano furtivamente convegno. La scenata che ne seguì pose fine a tutti i loro romantici sogni d’amore. Ma non si limitò a questo suo intervento distruttore: si lamentò di quanto accaduto con la catechista parrocchiale, una pia donna, che avrebbe dovuto sorvegliare, impedire, rimproverare… Ma quella seraficamente ribatté: “Non posso mettermi fra due cuori!”. Non oso immaginare quali improperi Filomena avesse rovesciato addosso alla, immagino esterrefatta, devota e pura, attempata catechista, so solo che quando riferiva di questo episodio, Filomena ancora sdegnata la definiva: “Quella puttana!”
Dunque iscrisse i suoi due figli maschi presso la esclusiva e prestigiosa scuola dei Gesuiti mentre una delle sue figlie femmine, cosa rara per quei tempi, frequentò la scuola magistrale per diplomarsi maestra. L’altra figlia femmina non andò molto avanti negli studi, studiava pianoforte ma dovette abbandonarlo per gli avvenimenti che si sarebbero susseguiti…
Fine prima puntata
SIMONETTA MANASIA
Catene
Marcella uscita da scuola era subito rientrata a casa e si era sdraiata sul letto della sua cameretta riflettendo sulle parole che le aveva detto la sua amica del cuore.
Ripeteva fra sé e sé la frase:
vorrei sapere perché vuoi in ogni momento dimostrarmi la tua superiorità con la tua perfetta dialettica, questo tuo comportamento mi tieni legata a te con una forte catena, piegando la mia volontà. Non riesco mai a replicare alle tue osservazioni, mi sento come prigioniera.
Un fulmine a ciel sereno per Marcella, non avrebbe mai pensato e nemmeno mai immaginato che la sua migliore amica si sentisse così a disagio con lei.
Era stata colpita in special modo da una sola parola “catena” che le dava in particolar modo sensazioni molto negative.
Pensava alla schiavitù, al carcerato legato con la catena a una pesante palla di ferro, all’epoca, perché non potesse scappare, alla catena della bici che se esce non ti fa proseguire il percorso prefissato, alla corta catena che lega le manette del poliziotto affinché il colpevole non abbia possibilità di azione.
Quell’immaginario l’aveva fatta sentire colpevole ma inconsapevolmente.
Atri pensieri vagarono nella sua mente ma si posero su immagini completamente diverse e incoraggianti.
Le catene d’oro di varie forme al collo delle donne, i bracciali che le rendono più affascinanti e graziose. Intrecci di triangoli, cerchi, ovali che sono concatenati tra di loro, uno dentro l’altro, per dimostrare unione.
In fondo il manico di una borsetta, un piccolo accessorio sopra le scarpe, un abbellimento su un vestito alla moda erano un’altra idea di “catena”.
Marcella aveva cancellato la visione negativa della catena sostituendola con una positiva.
Si assopì sognando una catena di amore fatta di piccoli anelli ma di grande speranza. Ogni anello rappresentava, la solidarietà, il sacrificio, il rispetto e tanti altri anelli che ognuno di noi può aggiungere unendosi tra loro con forza e determinazione credendo negli esseri umani che hanno il coraggio di esseri umani.
La canzone di Marco Mengoni, la svegliò con un sobbalzo e decise di telefonare immediatamente a Rosella per farsi perdonare e promettendo di liberarla dalla catena perché l’amicizia è un altro anello che fa parte dell’amore.