Gruppo scrittura Scarabeus 2019-20
Undicesimo incontro
ARTUTO FALASCHI
Libri.
Una volta ho visto dei libri veramente belli. Non in una libreria, certo, ma là dove i libri fanno bella mostra di sé: in un mobilificio. Poi, curiosando, sono andato in altri mobilifici e ne ho trovati ancora, non belli come quelli, ma discreti e, più che altro, funzionali; adatti allo scopo.
Li trovi sui ripiani delle librerie o di quei mobili grandi e pieni di loculi e mensole che sono lì a fare bella mostra di sé in attesa di un compratore.
Hanno le copertine tutte dello stesso colore, le scritte perlopiù in oro e hanno tutti, esattamente, le stesse dimensioni. Così, bene allineati, uno accanto all’altro, danno l’idea di una grande armonia, di una austera semplicità e bellezza.
Non come quelli accumulati nelle nostre case: colori vari, casuali, spesso stridenti tra loro; uno alto, l’altro basso, uno sottile, l’altro grande e grosso. Ti danno subito l’idea del caos che contengono e ti respingono.
Anche spolverarli, i libri dei mobilifici, e spolverare il ripiano, è semplicissimo. Basta scostarli un po’ più in là e via. Lo so, anche quelli che abbiamo in casa basta spostarli, ma non è mica la stessa cosa. Quelli, spostandoli, si piegano, si aprono, si sciupano. Gli altri no: sono rigidi, un blocco solo, indeformabile e non si aprono mai perché, e questa è la trovata, questi non hanno pagine. Non hanno questa cosa superflua e noiosa che sono le pagine. Tra le due facce della copertina hanno solo un parallelepipedo di polistirolo espanso, leggerissimo per giunta, che è incollato alla copertina stessa. Così, capisci, quando lo sposti, niente si apre e, anche se ti sfugge di mano, non fai nessun danno. È un oggetto praticamente indistruttibile. Volendo, si può trasmettere da una generazione all’altra.
“Vedi, Pierino, questo bel libro era di nonno. L’ha comprato con le sue mani”.
Ovviamente, non essendoci le pagine, non c’è scritto niente. Tanto, a cosa servirebbe scriverci qualcosa. Mica deve essere letto. Basta che arredi.
Perché: forse qualche libro che hai in casa lo leggi? Ma che tipo strano che sei! Però, stai attento, leggere non fa bene; alle lunghe ti rimbecillisce.
Non si potrebbe, per esempio, riprendere quella bella abitudine di dare fuoco ai libri. Non quelli di polistirolo, s’intende, la plastica non la puoi bruciare: inquina. No, quelli di carta o di quella strana cosa che chiamiamo carta e che, bruciata, inquina anche lei ma noi facciamo finta di nulla.
Potrebbe essere un bel gioco da fare all’aperto, nella piazza principale della città. Pensa, per esempio, un grande falò in piazza Del Campo, vicino alla fontana, con tutto il popolo radunato e i bambini che schiamazzano intorno.
Finalmente i libri servirebbero a qualcosa. Anzi, se proprio devo essere sincero, finalmente finirebbero di fare i danni che fanno. Tu vai nella vicina libreria o, meglio, in un autogrill, nell’edicola all’angolo, ne acquisti un paio, magari di quelli scontati, esci e butti tutto nel fuoco. In una gara generosa a chi ne brucia di più. Là vicino, nel palco delle autorità, l’editore e magari l’autore, felici e contenti di vedere l’ottimo risultato del loro lavoro. Il risultato di mercato, naturalmente.
L’importante è che il libro sia un genere di consumo, rapidamente acquistato e rapidamente distrutto. È così che si alimenta la filiera editoriale, si creano e mantengono posti di lavoro e si alimenta il PIL. Una filiera, appunto, come quella da cui escono gli spaghetti. Aglio, olio e peperoncino, quattro forchettate e non ci sono più. Sotto un altro.
Allora, capisci, il fuoco è la soluzione più rapida ed efficiente.
Si, va bene, ci sono anche quei pochi libri da salvare: la cultura, l’arte, la storia. Mettiamoli in biblioteca. Stanno là e non danno noia a nessuno.
Se poi vogliamo fare un discorso serio, a quattrocchi, qui lo dico e qui lo nego, il rogo sarebbe anche un fatto culturale, specialmente rivolto ai giovani. Per esempio: il fatto che la maggior parte dei libri fosse solo, giustamente, materiale da combustione, potrebbe incuriosirli verso quei pochi che marciscono nelle biblioteche. Darebbe l’idea che il libro serio è una cosa seria, che leggerlo, farlo proprio, assimilarlo, è cosa faticosa, richiede preparazione, impegno, senso di responsabilità. Il resto è spazzatura, insignificanza.
Darebbe l’idea che il rogo è sia festa spensierata ma anche necessità, pulizia. Che tra cultura e mercato c’è un abisso insuperabile e chi dice il contrario deve essere messo al rogo insieme ai libri. E anche quell’autore lì, che sta tronfio di sé sul palco delle autorità, una bruciatina, un’ustioncella se la meriterebbe anche lui.
Prendiamo i premi letterari, il Bancarella poniamo. Immaginate che festa se, dopo il rito scontato della premiazione, si accendesse un bel falò sulla spiaggia di Camaiore e tutti i libri dentro, dal primo all’ultimo classificato (tanto, la differenza è minima).
Organizzato dagli stessi editori che, loro sì, sanno benissimo che proprio per essere bruciati in fretta sono stati scritti e stampati e che, una volta spariti, fatte le dovute campagne pubblicitarie, dovranno essere ristampati e ribruciati in un gioco senza fine che si chiama mercato culturale.
A tutto discapito degli alberi che forniscono la cellulosa e dell’ossigeno che fornisce il comburente. Per disfare ciò che la natura mirabilmente fece. Nella gaia incoscienza di quei bambini che danzerebbero intorno al rogo in piazza Del Campo o sulla spiaggia di Camaiore.
Poi c’è il libro dei libri, il Libro con la maiuscola, quello più stampato e il primo stampato: c’è la Bibbia. C’è perfino la Bibbia con le pagine scritte, senza il polistirolo all’interno. La cosa non si capisce bene: dal momento che nessuno la legge, a cosa servono le pagine e le cose che ci sono scritte. La Bibbia sarebbe l’ideale per ornare il mobile del mobilificio. Darebbe anche un certo tono che non so. L’aspetto gratuito di devoto cristiano.
La plastica all’interno renderebbe bene l’idea che quel libro, il più diffuso al mondo, sia il meno letto; anzi, non il meno letto ma il non letto per eccellenza.
Perché, sia chiaro, se quel libro fosse davvero letto, non si spiegherebbe il comportamento di tutti quelli che dicono di averlo conosciuto, capito e approvato. Se fosse davvero letto, forse il mondo non sarebbe quello che è.
Che, in effetti, sia vero che le Bibbie che girano per le case sono di polistirolo?
E che sia di polistirolo anche quel Dio che ci dovresti trovare dentro? Un Dio arredante, che dia un tono all’ambiente, facile da spostare qua o là secondo i casi, che non dia fastidio quando devi spolverare. Delle giuste dimensioni, la copertina in tinta e le scritte in similoro.
Ma no, dice qualcuno; lo leggono, lo leggono. Non tutti, anzi, pochi e non tutto, anzi, poco. Dice qualcuno, che sostiene di averlo letto tutto (ma esiste costui?), che in quel libro trovi tutto e il contrario di tutto. Così, basta scegliere quello che più ti fa comodo.
Vuoi perdonare il tuo nemico? Accomodati. Vuoi sterminare un popolo perché ti sta sulle scatole? Prego, faccia pure. Vuoi amare il prossimo tuo? Ci mancherebbe altro. Vuoi rubare le terre ai palestinesi? Ma figurati …
Ma lo leggono in pochissimi. Quelli che sanno a cosa serve: a giustificare i propri interessi (prevalentemente sporchi) e a convincere i più (quelli con i libri in polistirolo) che perfino Dio è d’accordo con loro.
Vedi che il rogo serve … serve… serve.
P.S.
A scanso di equivoci. È evidente che quanto sopra è volutamente enfatico e paradossale.
Il mio amore per i libri è fuori discussione. Ma forse è proprio quell’amore (tradito) che me lo ha dettato.
LUCIANA RUSSO
State a casa
Quella sera la televisione era piena di personaggi famosi. Cantanti che cantavano i loro ultimi successi, attori che facevano pubblicità al proprio film, sportivi, politici etc. Tutti ripetevano come un mantra di stare a casa e leggersi un libro. In fin dei conti, aggiungevano, è bello stare a casa sul divano con i propri cari e magari leggere, leggere, leggere. Marco ribolliva di rabbia. Parlavano bene quei buffoni. Lui sul divano ci stava ma il suo pensiero era sempre al suo bar che aveva dovuto chiudere dalla mattina alla sera a causa dell’ordinanza ministeriale che aveva messo a tacere non soltanto lui ma tantissimi altri esercizi. Ora alla televisione era il turno della campionessa di nuoto che fra una gara e l’altra pubblicizzava un noto shampoo e con un sorriso gli consigliava di non uscire e chiaramente di leggersi un libro. Lui si chiedeva ma questa gente, che aveva il coraggio di consigliare di leggere, in realtà quanti libri avevano letto? Ne sapevano qualcosa di che cosa voleva dire lettura? A guardare la faccia di un famoso calciatore pensava proprio di no. Bastava sentire come si esprimeva. Si sentiva sempre più depresso. Anche se si metteva sul famoso divano a leggere non poteva più contare su uno stipendio ma le spese, le bollette correvano ugualmente. Ogni giorno contava i suoi risparmi e pensava che ancora ce la stava facendo ma per quanto tempo?
Gli mancava il suo lavoro, l’odore della macchina del caffè. La mattina non smetteva di fare caffè fino alle 11 e poi via con gli aperitivi. Era contento di stare in mezzo alla gente e parlare di tutto quello che riportavano i giornali. A volte ci scappava anche la chiacchierata importante che lo faceva riflettere. Dalle 16 alle 17 era l’ora morta nella quale lui tirava fuori un librino che aveva sempre dietro il banco. Erano ore rubate e lui si sprofondava in quelle letture da dove riemergeva nel tardo pomeriggio quando i primi avventori si facevano avanti per ordinare bibite, aperitivi e il caffè che non mancava mai a qualsiasi ora del giorno. Tutto svanito, la sua vita scomparsa. Lisa, sua moglie, lo chiamò:
< Marco che fai? Passerà non ti deprimere. Perché non ti leggi un bel libro? Ne abbiamo così tanti>
Ci si metteva anche lei, ora, non bastava il comico di turno alla televisione che diceva che era brutto fare gli aperitivi, vedere gente, ma invece vuoi mettere un bel libro? A casa tua? Sarebbe stato istruttivo vedere da quali case veniva il suggerimento. Probabilmente avevano tanto spazio e giardini con piscina per cui di tanto in tanto potevano anche leggere qualcosa. Certamente non vivevano in un appartamento come lui e la moglie e non avevano un piccolo terrazzo dove crescevano pochi gerani e piante aromatiche. Si sentiva sempre più defraudato e preso in giro. Chissà quando avrebbe potuto riaprire e i clienti sarebbero ritornati?
Si alzò dal divano e andò verso la libreria. Con un grosso sospiro cominciò a sfiorare i libri. Li aveva letti, certo, ma della maggior parte non si ricordava nemmeno il titolo. Quando però comprava un libro era perché gli interessava non perché dovesse riempire ore vuote. Si ricordò la gioia che provava quando apriva le prima pagine del nuovo acquisto. Ora non c’era gioia ma un compito da eseguire perché lo dicevano loro, quelli della televisione, i giornali, i social. Niente avrebbe alleggerito la tristezza di Marco in quel momento. Gli occhi gli caddero su un libro. Ah ecco, questo se lo ricordava bene. I Buddenbrook di Thomas Mann I’opera che rappresentava l’estate dei suoi sedici anni. Leo, un amico, l’intellettuale del gruppo, il giorno del suo compleanno gli aveva regalato quel libro dicendogli con un sorriso che gli ci sarebbe voluto almeno un mese per finirlo. Fu così che leggendo incontrò la città di Lubecca, la lega Anseatica e imparò che in quei tempi la religione protestante e la ricchezza di un uomo per i tedeschi era un tutt’uno. La sua mano andò avanti ad accarezzare il dorso dei libri. A volte era meravigliato di trovarne uno che si era dimenticato di avere. Lo prendeva fra le mani e pensava che l’avrebbe letto dopo quando nessuno gli avrebbe ordinato di farlo. Poi la bocca si allargò in un sorriso. Questo si che l’aveva riconosciuto, ogni volta che lo incontrava il suo spirito si alleggeriva. “L’Uovo al Cianuro” di Pietro Chiara era legato all’incidente in moto che aveva avuto a trent’anni e per il quale aveva dovuto stare a letto immobile per un mese. Che disperazione! Era arrivato il solito Leo che gli aveva allungato quel libro. Si era divertito leggendo le avventure di quella gente comune che viveva ai bordi del lago di Maggiore, vicino al confine con la Svizzera. Pensò che l’autore era un grande scrittore perché coniugava leggerezza e profondità nello stesso tempo. Qualche volta, quando era depresso, lo riprendeva in mano e sempre gli arrivava quel senso di felicità di cui l’opera era pervasa.
Lasciò cadere la mano lungo il fianco e si risedette sul divano, la televisione accesa. Sullo schermo il decalogo di come i cittadini erano tenuti a comportarsi durante l’epidemia, non solo leggere, ma fare esercizio in casa, pulire, etc. Spense la televisione e questa volta con una leggera luce negli occhi cominciò a cercare nella sua mente il libro che l’avrebbe accompagnato nel tempo del corona virus.
NADIA PAOLACCI
Io leggo
Qualche tempo fa, ho letto un libro di Chiara Gamberale: “Le luci nelle case degli altri”. La protagonista è un’adolescente che vive varie vite, in quanto adottata dagli inquilini del piccolo condominio in cui abita, dopo essere rimasta sola, e a turno viene da loro ospitata. Personalmente, quando leggo un libro, mi viene spontaneo di introdurmi nel mondo che viene descritto, mondo affollatissimo che lascia in me una memoria, un insieme di persone, di eventi che rimangono nella mia mente e che talvolta riaffiorano. Personaggi a cui io do un aspetto, una fisionomia, un corpo che lo scrittore descrive ed io personalizzo. Da sempre la lettura ha rappresentato per me un rifugio da ciò che la realtà mi offriva, è l’ingresso in “paesi” che non mi hanno respinta. Nella scelta del libro, osservo la copertina, valuto l’autore. lo sfoglio e percepisco l’odore delle pagine che ancora sanno di stampa, mi delizia il suono delle pagine ancora intatte, tutto contribuisce ad aumentare il desiderio di leggerlo. È come aprire una porta dietro la quale si presentano spettacoli vari: immagino la Londra descritta da Virginia Wolfe (Miss Dallaway ), noto il contrasto tra l’amore per la vita di Clarissa e l’impulso descrittivo di Septimus. Scopro l’indagare nei meccanismi più intimi della psiche dei vari personaggi e riportare fedelmente il loro mondo di percezioni sottili e mutevoli, dove anche i più semplici eventi della vita, diventano carichi di significato e di valore (ricevimento di Miss Dallway) che mi testimoniano la vita dell’epoca. Sono a Napoli con i gialli di De Giovanni che descrive mirabilmente la vita e il popolo. Sono in Cina con Tiziano Terzani che parla Rieki la meditazione che è terapia per il corpo e lo spirito. Talvolta si può pensare che il lettore sia una persona solitaria, per me è solitudine solo apparente, mi mette in contatto con ambienti, personaggi, storie, quindi solitudine creativa. Il libro rappresenta ciò che da piccola era l’ascolto. Mio padre mi raccontava le sue esperienze di vita ed io ne facevo tesoro, senza interloquire, senza ribattere e ne restavo affascinata. Gli autori non sanno quante e quali persone leggeranno i loro scritti, io mi ritengo presente nel loro percorso. Lettura non per noia, ma fertilizzante per la creatività, porta a sognare, ad avere nostalgie mai vissute. In questo periodo mi sono scoperta più fragile, vulnerabile, ho una paura consapevole, non panico, ma razionale, io sposto la mia attenzione nella lettura. La quarantena forzata, con la condivisione e i legami a distanza mi danno la voglia di ritrovarci. Questa situazione mai pensata mi fa sentire in una bolla, che sospesa in aria fa sì che il concerto di superiorità, sia vanificato dalla realtà, un giorno qualunque ha cambiato tutti glia altri che verranno, ed io non posso farci poco, Quindi cerco di dare un senso a ciò che mi sta accadendo affinché non sia un periodo di tempo perso, vedo il futuro senza pessimismo. Dobbiamo ricordarci che nei primi anni del 1900, il mondo era contagiato dall’influenza spagnola che causò la morte di 50 milioni di persone, e per di più era in atto la prima guerra mondiale, con altri milioni di vittime. La medicina dell’epoca non era quella di adesso, ma siamo arrivati al giorno d’oggi con una vita migliore di quella di allora. Per cui vedo il futuro pieno di soddisfazioni e gioie. Sto sognando?
Ricordo la frase di G. Rodari : ” non ti scordare di sognare in grande”.
ANITA MATTEELLI
DALLA PARTE DEL LIBRO
La libreria nel salotto della signora Anita è in fermento, c’è una protesta in atto, i libri parlano tra loro.
FFFffff FFFffff (soffia)
Quanta polvere, mi verrà l’asma! Brontola il libro La mia Africa.
“Voi tutti zitti? Non si vede uno spolverino da mesi…! Siamo troppi, ma poi perché continua ad aggiungerne altri? Siamo stretti come acciughe, io ne ho anche altri tre in testa, FFFffff un’altra libreria noo?”
“Hai ragione La mia Africa, anch’io che sono un giallo notevole, di Giorgio Faletti dal titolo “Io uccido” non faccio altro che starnutire, inoltre, non sono solo strettissimo, ho anche in testa “Un cappello pieno di ciliegie” della Fallaci. Hai presente?, no forse tu non lo puoi vedere sei più in basso di scaffale, ma credi, un malloppo! Sai che barba sarebbe leggerlo? Infatti è qui in bella mostra, ogni tanto l’Anita lo prende aaaah che sollievo, ma non dura molto il mio sollievo perché dopo poco lo riposa di nuovo sul mio capo, mi sto piegando tutto…”
“Eeeeeeh, risponde la mia Africa, tu non sai, perché non puoi vedermi di lassù, io mi porto sul groppone tre volumi del “Don Chisciotte della Mancia” Questi scrittori megalomani…”
“Chi l’ha scritto?”
“Miguel Cervantes, un fissato di mulini a vento contro cui fa combattere il suo protagonista chiamato appunto “Don Chisciotte.”
“Di che cosa tratta?” Insiste l’altro.”
“Don Chisciotte, il protagonista del libro, è un appassionato di romanzi cavallereschi, a tal punto da trascinarlo in un mondo fantastico nel quale si convince di diventare un “cavaliere errante”. E, come gli eroi, si mette in viaggio sul suo destriero girando tutta la Spagna per difendere i deboli. Come ogni cavaliere dei romanzi che leggeva, vuole dedicare le sue battaglie ad una dama, una contadina che lui, nella sua mente, eleva a nobile dama, di nome Dulcinea. Nella sua pazzia trascina con sé un contadino di nome Sancio Panza, al quale promette il governo di un’isola a patto che gli faccia da scudiero.
Purtroppo però la Spagna del suo tempo non è quella della cavalleria, così le sue battaglie si riducono a prendersela con le pale dei mulini a vento che lui travisa in giganti dalle braccia ruotanti e, un gregge di pecore, in eserciti arabi che sottomisero la Spagna dal 711 al 1492. Poiché non sarà mai vincente suscita ilarità nelle persone che assistono alle sue visionarie imprese.”
“Però! Commenta l’altro, deve essere divertente…”
“Mah! Risponde Don Chisciotte della Mancia, dipende dai gusti di chi lo legge, a me disturba avere tutto questo peso addosso…
In questo salotto quando specialmente parlano di politica, sento spesso questa battuta: “se, se combatte contro i mulini a vento!”
“Ma che vuol dire?”
“Vuol dire niente di buono… colui di cui parlano, sta combattendo una battaglia a vuoto, senza risolvere niente, anzi!
Mah! Cose degli umani, scrivono, scrivono tante belle cose, ma spesso anche scemenze, pur di tentare la gloria, non si sottovalutano, e c’è anche chi gliela promette in cambio di soldoni, poi questi libercoli, li infilano tra noi libri di sostanza e ci discreditano oltre a stripparsi all’inverosimile”.
“Il libro La mia Africa, di cui porti il nome di che tratta?
“E’ un romanzo bellissimo, autobiografico della scrittrice Karen Brixen. Il racconto, in breve, tratta della vita di un gruppo di coloni, nobili europei e Americani in Kenia all’inizio del ventesimo secolo.
La scrittrice colona anche ei, si innamora dell’Africa e ne racconta la bellezza della natura. Descrive la spettacolarità della savana africana che è piena di animali di ogni specie che vivono in libertà: elefanti, leoni, gazzelle, tigri, zebre, struzzi e, lungo il fiume schiere di trampolieri rosa da restare senza fiato dalla bellezza.
E poi quel cielo fitto di stelle, unico al mondo, che incanta l’anima…partire dall’Africa, fu per lei un grande dolore. Parla anche dell’intesa che riuscì a stabilire con gli indigeni, con i quali lavorava come fosse una di loro, e per vari tipi di aiuti che non lesinava, che la fecero amare. Questo libro, che è stato scritto in forma di diario, è un inno all’Africa, racconta anche del marito che non stava mai con lei, fissato a intraprendere safari con gli amici, e che non le dimostrò mai amore, quello vero. Provò invece un intenso amore, ricambiato, con un cacciatore, del quale oltre a citarlo nel libro, ha tenuto per sé come l’hanno vissuto e quali ideali e sentimenti reciproci li legava.”
FFFffff basta sta polvere mi uccide… sono stanco!
“Eih voi libri di sotto che vi lamentate eeeecciù, pensate un po’ a come sto io! Sono nello scaffale più alto senza riparo sopra come lo avete voi, FFFffff eeeecciù”
“Ma chi sei”
“Sono il Placido Don, in tre libri raccolti in un contenitore.
Prendo tanta polvere ma ho dentro scritto un capolavoro della letteratura Russa, che ha vinto tre premi importantissimi: premio Stalin, premio Lenin e dulcis in fundo, il più importante, Il premio Nobel per la letteratura.”
“Accipicchiolina, esclama La mia Africa, più importante dei nostri… o di che cosa parla?”
“E’ un romanzo che descrive la dura vita dei cosacchi, durante la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa.
Non vi sembra che mi spetterebbe di stare in un posto più protetto e consono ad un grande come me?”
“Eee, se per questo, ribatte La mia Africa, mica è da meno il mio libro, ci hanno fatto anche un bellissimo film, inoltre lasciatelo dire… basta parlare di guerre, la gente ha bisogno di leggere di pace, di amore, di avventure, di bellezza…eeeeeccciù, non ti lamentare, pensa che sei più in alto di tutti, ti par poco?”
Dopo tutto questo bla bla, parlando orgogliosi, di loro stessi, si sono dimenticati quale fosse l’argomento principale “la protesta per la polvere…!”
PAOLO BARONI
Il potere dei libri
Prologo
Ciò che vi accingete a leggere è il frutto derivante dalla lettura di un libro che ho comprato un po’ di tempo fa. Lo trovai in un angolo di un negozio di libri usati di Grosseto, una bottega in via Manfredo Fanti, dove il tempo sembrava essersi fermato, come impastato con la polvere e l’odoredi vecchio. Mi ci infilai così, un po’ per curiosità e un po’ per ripararmi dall’aria rovente di un pomeriggio di mezza estate. Ero stato attirato dall’insegna di legno antico che pendeva proprio sopra la porta d’ingresso e che annunciava che nel negozio si trovassero: “I libri dei sogni”. Appena entrato mi trovai circondato da una moltitudine di vecchi tomi, allineati in file disordinate, variegate per colore e dimensione. Tutto era avvolto dalla penombra e da un silenzio surreale. Nessun libraio mi venne incontro e nessun altro cliente mi faceva compagnia. Con voce incerta chiesi: «È aperto?». Un silenzio ovattato, come avvolto nella carta ingiallita di migliaia di libri, fu la risposta. Decisi di curiosare fra gli scaffali e mi incamminai lentamente negli stretti corridoi fra gli scaffali, facendo volutamente rumore, fingendo qualche colpo di tosse per rivelare la mia presenza. Niente e nessuno si fece vivo. Seguii con lo sguardo il dorso di decine di libri esposti e lessi alcuni titoli ad alta voce. C’era di tutto: libri di storia, racconti per ragazzi, romanzi d’appendice, capolavori immortali, ricerche scientifiche e antichi volumi illustrati di anatomia, di animali, di viaggi. Non sembrava che la libreria fosse stata organizzata seguendo un criterio bibliografico. Ebbi l’impressione che il fantomatico libraio avesse esposto i volumi sugli scaffali nell’ordine in cui se li era procurati.
Mi addentrai nella parte più interna del negozio dove la luce del giorno arrivava con difficoltà e raggiunsi una specie di sottoscala quasi immerso nell’oscurità. Qui intravidi una libreria di legno scuro, colma di volumi di ogni dimensione. Un interruttore di ceramica era attaccato alla parete e mi sembrò naturale girare la chiavetta. Una vecchia lampadina collegata a un filo a treccia foderata di stoffa colore della polvere emise un leggero, lungo lamento e mi regalò una luce calda.
La mia attenzione fu attirata da un tomo molto particolare con la copertina di stoffa di raso rosso e impressioni in oro. Sul dorso portava un titolo che mi fece scattare una curiosità irresistibile: “La fantastica raccolta delle storie molteplici”. Nessun autore o curatore. Lo sfilai dalla sua sede e, tenendolo con entrambe le mani, lo feci avvolgere dal barlume della lampadina per osservarlo meglio. Sulla facciata della copertina era incisa l’immagine di un albero. Un numero enorme di rami e di foglie si intrecciavano fino ai bordi. Era un’immagine impressa nella stoffa che invitava ad essere esplorata più con i polpastrelli che con gli occhi. Appoggiai il palmo della mano destra sulla pagina e, muovendo leggermente le mie dita come una carezza, percepii la ramificazione dell’albero. Voltai il libro per guardare la retro coperta. C’era un altro disegno impresso sulla
stoffa. A prima vista sembrava un labirinto circolare, ma si trattava invece di un poligono a dodici lati, un dodecagono che racchiudeva un fittissimo intreccio di vie che conducevano sia al centro del dedalo sia a un’uscita in alto a destra verso il bordo del libro. Tracciai con l’indice un percorso a caso ma mi fermai poco dopo, bloccato in una strada senza sbocco. Voltai la retro coperta per controllare se ci fosse il prezzo richiesto: spesso, nei libri usati, viene annotato a lapis in fondo nell’ultima pagina. Invece della cifra notai un appunto scritto con una matita finissima che riportava: “Prezzo da concordare”.
Sfogliai le prime pagine alla ricerca di una data, e del nome di un editore. I caratteri erano eleganti e chiari. La carta di pregio. Nel colophon era riportato il nome e la città dello stampatore: Paolo Bacci tipografo e legatore, Bologna. “Ma guarda, la mia città”, pensai. Più sotto, l’anno di stampa: 1989. Poi nient’altro.
Aprii il volume verso la metà. La legatura era in perfetto stato ed eseguita con cura. Stavo per iniziare a leggere qualche riga, quando udii una voce dietro di me che mi fece sobbalzare: «Quel libro non va letto di sfuggita».
Mi alzai di scatto e seppi dire solo: «Mi scusi, la porta era aperta, ho chiamato…».
«Non ti preoccupare, chi ama leggere è sempre il benvenuto qui». La voce era quella di un omino, non più alto di un metro e mezzo che teneva nelle mani un grosso volume, forse il registro di un archivio. Notai il volto solcato da rughe profonde e i pochi capelli di un candore simile alla neve appena caduta. L’azzurro luminoso dei suoi occhi rifletteva la luce gialla della lampadina. Mi sorrise come un nonno sorride a un bambino sorpreso a rovistare fra i ricordi di famiglia.
«Le storie molteplici, non si leggono di sfuggita, ma si vivono», disse, come per convincermi a rimettere il volume nella sua sede. Poi aggiunse con tono famigliare: «Il potere di quel libro sta nelle idee espresse dagli autori moltiplicato per la capacità di capire e di immaginare dei lettori. Leggerlo significa entrare in una rete che intreccia le menti in una comunione variegata e multiforme intessuta di conoscenza e fantasia. Una vera alchimia.
Per alcuni secondi, rimasi interdetto dalle parole del libraio, infine riuscii a chiedere: «Chi è l’autore?».
«Sono molteplici», fu la risposta.
«Autori vari?», chiesi.
Molteplici dà l’idea della pluralità e dell’unione», giovanotto. Vari sono i semi dell’olio. Molteplici autori hanno scritto storie molteplici…», osservai con un accostamento che mi suonò subito piuttosto insulso, poi aggiunsi: «Sono storie di finzione?».
«Sono storie dove il reale è inverosimile, più dell’immaginazione», fu la risposta di quello strano tipo.
«È un libro di pregio, anche se non è antico. Quanto costa?»
«Se hai deciso di leggerlo, dammi 30 euro, ma mi devi promettere che me lo rivenderai per metà del prezzo che hai pagato se non riuscirai a finirlo».
«Io finisco sempre i libri che leggo, risposi con un moto di orgoglio.
«Allora diciamo… se ti perderai nel labirinto delle storie molteplici».
«Affare fatto», esclamai con sicumera, porgendo il libro al venditore.
Il libraio tornò nella sala d’ingresso, poggiò il libro su un tavolo antico di noce e incartò il mio acquisto con una carta velina fiorita. Pagai, salutai con un sorriso l’uomo e mi diressi all’uscita convinto di aver fatto un ottimo affare. Mentre varcavo la soglia sentii una frase, pronunciata come un consiglio di un amico: «Ricordati, i protagonisti delle storie molteplici sono principalmente i lettori».
Quando giunsi in albergo, posai sul letto il mio nuovo acquisto e mi trattenni alcuni secondi ad ammirare il pacchetto. Ero incerto se aprirlo subito o, dato che sarei partito la mattina seguente, se aspettare a leggerlo quando mi fossi trovato a casa, nel mio ambiente, circondato dalle mie cose. Decisi che non volevo aspettare. Tolsi con cura la carta velina, accostai il volume al naso e m’inebriai con il profumo della carta. Osservai poi l’albero impresso sulla copertina. Alla luce rosata del tramonto che filtrava dalla finestra della mia camera, la figura mi apparve accurata e potente, ricca di significato. Era la metafora delle mille trame che rappresentano le relazioni umane? Oppure era il simbolo del Caso e della Forza vitale che costituiscono la storia dell’umanità?
Girai il libro. Ecco il labirinto con la sua entrata che era anche l’unica uscita. Anche in questo caso sembrava che la metafora fosse chiara. La vita. Il suo inizio e la sua fine come unico traguardo: prima non c’eravamo ancora e dopo non ci saremo più. Ma viene illustrata un’altra meta, che non porta al di fuori, ma al centro, una destinazione alternativa che ci si prospetta quando decidiamo di non camminare verso l’uscita ma verso l’interno, alla ricerca di qualcosa che sta dentro di noi, un traguardo nascosto, inconoscibile, raggiunto il quale forse possiamo iniziare un nuovo cammino. Come al solito stavo inventando ipotesi, fantasie. Un’abitudine derivata dalle mie letture e dal mio amore per la fisica e per la storia del pensiero.
Era giunto il momento di iniziare la lettura delle storie molteplici, voltai pagina. Il titolo e subito dopo un prologo.
LA FANTASTICA RACCOLTA DELLE STORIE MOLTEPLICI
PROLOGO
Queste storie sono state narrate da voci diverse che s’intrecciano fino a formare un’unica sinfonia corale. Ogni storia è legata alle altre, poiché illustrano un cammino comune, quello della ricerca della conoscenza e della verità.
Tu, caro lettore, non sarai un semplice osservatore, ma sarai il centro di tutto, perché ricordati che tutto ciò che esiste, dalla più piccola particella, fino al più grande ammasso di galassie ruota intorno ai tuoi occhi e alla tua capacità di comprendere. Così come uno specchio non ha alcun senso senza un soggetto da riflettere, senza la luce che illumina il mondo, ma soprattutto senza uno sguardo da attraversare. Tutto il possibile acquista significato solo attraverso le scintille della coscienza che annullano il buio.
Mi fermai a riflettere. Il libro che stavo leggendo sembrava esporre alcune teorie della meccanica quantistica, perfino del multiverso e delle extra dimensioni, temi che amavo. Era una coincidenza? Seduto in una poltrona anonima di una camera d’albergo di Grosseto, in una sera calda di agosto, mi strinsi intorno alla mia solitudine e continuai a leggere.
Oltre a questo, molti altri prologhi potrebbero essere scritti. Sono le vicende che ogni lettore vive durante la lettura e che legano indissolubilmente lettori e autori in un gioco volto all’infinito.
“Quello che ho vissuto io per ottenere questo libro potrebbe essere un prologo non scritto ma vissuto?”, mi domandai incredulo. Da qualche parte poteva esistere un libro che descriveva me che leggevo il libro, i miei pensieri, più il contenuto del libro stesso?
Mi sentivo molto confuso ma decisi di continuare.
I protagonisti delle storie che stai per leggere hanno compiuto azioni, provato emozioni, hanno letto e raccontato, imparato e insegnato, sono vissuti veramente. Tu sei uno di loro. Tutti costituite la vera trama de La fantastica raccolta delle storie molteplici.
Ecco. Cominciavo a capire, o forse no. Voltai pagina.
SIMONETTA MANASIA
LA PARTITA FAVOLOSA
IL fischio d‘inizio riecheggia nello stadio e la fata smemorina guardandosi intorno non ricorda cosa fare ma a un tratto vede il pallone e tira.
Passa a Cenerentola che corre malissimo senza una scarpa ma raggiunge il principe azzurro che con eleganza calcia ma non è preciso e sbaglia.
Calcio d’angolo, va il gatto con gli stivali, tiro centrale, c’è Pollicino che perde per qualche secondo l’orientamento, non essendoci nessuna piccole molliche di pane per terra.
Confusione in area ma Aladino strusciando la lampada esprime un desiderio e finalmente GOOOOLLLL!!!!
Drin drin il suono sgradito della sveglia riporta alla realtà Giorgio, apre gli occhi, sono le sette e trenta è l’ora di andare a scuola.
Prima di mettere giù i piedi dal letto guarda davanti a sé, la biblioteca è sempre lì piena di libri per piccoli che ogni sera, come di consueto, i suoi personaggi si animano e danno il via ai suoi bei sogni.
Giorgio è un gran lettore, la colpevole è stata la nonna che gli ha trasmesso questa passione che coltiva giorno per giorno, con grande entusiasmo.
Lui dopo la scuola e i compiti fatti, prende un libro e la sua fantasia spazia seguendo con attenzione pagina per pagina le descrizioni dell’autore.
In italiano ha un bellissimo voto, dieci, ed è molto soddisfatto.
Il suo più grande desiderio è di diventare uno scrittore famoso e ci riuscirà visto il suo talento.
In cuor suo, desidera accontentare sia i piccoli e sia i grandi.
Scriverà storie per tutti dedicandole alla nonna.
MILENA VOX
Il suo primo parto fu gemellare e prematuro: partorì a sei mesi di gravidanza. – Li misi in una scatola con della “bambagia” intorno (incubatrice d’altri tempi), ma per fortuna morirono – raccontava – erano troppo piccoli, come avrei fatto a mandarli avanti? – . In seguito diede alla luce senza problemi due femmine e due maschi.
La prima figlia, quella che aveva fatto studiare da maestra, a soli diciassette anni vinse un concorso magistrale, la sua prima nomina fu in un paese in provincia di Taranto. Filomena non pose tempo in mezzo: preparò i bagagli e partì insieme alla sua figliola, affidando casa e restanti tre uomini all’altra figlia undicenne!! Non bisognava perdere una simile opportunità e poi, chissà, col tempo avrebbe potuto avere un incarico a casa! Si alloggiarono presso una signora e quale non fu il suo orrore quando si accorse che il letto era pieno di cimici, Filomena con risolutezza sanificò letto e lenzuola non senza avere fatto le sue vivaci rimostranze alla padrona di casa.
Le due tornavano a casa per il fine settimana.
Accadde che sulla stessa tratta salisse un bel giovanotto gentile, pendolare in quanto studente universitario, che fu colpito dalla bellezza di mia zia. I due si lanciavano timidi sguardi, ma Filomena, pur notando il suo fare gentile, a sua volta lanciava sguardi inquieti al giovanotto che non osava farsi avanti. Chi era? Che Faceva? Da quale famiglia proveniva? C’era un’unica cosa da fare: chiedere ragguagli al parroco del paese, senza indugiare oltre.
Le notizie andarono oltre le sue aspettative: non solo si trattava di un giovane serio, proveniente da buona e stimata famiglia, ma era anche benestante e possidente di terreni e bestiame. Filomena era al settimo cielo: il corteggiatore poteva avvicinarsi!
Zio Carlo era orfano di entrambi i genitori ed era stato allevato da due suoi zii, fratello e sorella, molto religiosa, che gli avevano impartito una signorile severissima educazione, ottocentesca oserei dire: rispetto assoluto, modi garbati, nessuna alzata di voce, niente ribellioni! Zia Angela e zio Carlo si sposarono e andarono a vivere nella masseria di lui proprietà. Dal loro matrimonio sono nati dieci figli, tutti belli e bravi, educati secondo gli atavici principi; zia Angela, giovane, dolcissima sposa, fece sue le consuetudini del marito e si dedicò devotamente alla famiglia; dopo diversi anni riprese ad insegnare.
Quando partoriva, Filomena andava da lei, altre volte era Angela a venire da noi, io ero incaricata di “nacare” (cullare) i bambini appena nati, ma guai ad avvicinarmi alla stanza della partoriente! Venivo cacciata in malo modo da Filomena e mi mortificavo, non capivo il perché di tale reazione. Una volta mi avvidi di una bacinella piena di sangue. Ne chiesi il motivo: mi fu spiegato con fare rude che la cicogna, rompendo il vetro di camera, si era fatta male ad un’ala!
Capitò che Filomena andasse alla masseria perché Angela stava per partorire. Fu presa improvvisamente dalle doglie, bisognava affrettarsi in paese a chiamare la levatrice. Era una notte buia e tempestosa, zio Carlo montò a cavallo e lo spronò verso il paese, ma anche la bambina si affrettava.
Filomena agì con prontezza – recitando la Salve Regina – raccontava, fece nascere la bambina, unico suo rammarico aver legato il cordone ombelicale con del filo nero perché non ne aveva trovato altro. Quando giunse la levatrice mamma e bimba erano sistemate e stavano bene.
In un’altra occasione, si trovò a preparare delle polpette e, non resistendo, ne mangiò una. La severa zia che le aveva contate, gliene chiese conto, Filomena le rispose serafica che era stato il gatto! (che in una masseria non mancano mai per fortuna). La zia mangiò la foglia e non ribatté.
I cugini nati da zio Carlo e zia Angela sono stati per me fonte di inquietudine nella mia fanciullezza . . .